Va bene, il
genio conta. Anche i maestri, però, hanno il loro peso: lo scozzese Bert Jansch
impara a suonare la chitarra prima da Jill Doyle, nientemeno che la sorella di
Davy Graham, uno dei nomi chiave del folk-revival inglese, poi da Archie Fisher
e infine da Len Partridge, “a guy who’s a lifelong friend but he doesn’t playin public. He taught me a lot of blues”. A contare è anche il contesto,
l’ambiente: in questo caso il “The Howff”, il folk club fondato da Roy Guest ad
Edinburgo, sorta di santuario del folk britannico che vide passare gente come
Sonny Terry e Pete Seeger. E poi ci sono le frequentazioni: Robin Williamson e
Clive Palmer, ad esempio, i geniali futuri fondatori della Incredible String
Band, con cui Jansch condivide ad inizio anni Sessanta un appartamento a
Edinburgo.
La carriera vera e propria di Bert Jansch inizia quando, dopo aver
viaggiato in lungo e in largo per il mondo, nel 1964 si stabilisce a Londra:
qui diventerà il nome di punta, assieme a John Renbourn, dei grandi Pentangles.
Ma non solo: nel 1965 l’importante esordio solista intitolato “Bert Jansch”
rappresenta il primo passo di una carriera duratura e, a posteriori,
influentissima.
Di quella
carriera “Moonshine” è forse il momento più autorevole. Jansch si rivela, nelle
tracce del suo ottavo album, compostissimo e austero, spalleggiato da un
mirabolante stuolo di collaboratori (Danny Thompson, Tony Visconti, Dave
Mattacks…) ma padrone incontrastato di composizioni ricche e rifinite tanto dal
punto di vista degli arrangiamenti (ora minimali, ora sontuosi) che da quello
della grande sensibilità melodica di un songwriter ispirato come non mai.
“Moonshine”
riesce a fondere l'anima intimista di un Nick Drake alla vena “british” di
gente come Fairport Convention e Fotheringay: “Yarrow”, che inaugura il disco,
è una delicata ballata d'altri tempi, accarezzata dal timbro caldo ed elegante
di Jansch, mentre sullo sfondo è tutto un pizzicare di corde, un levitare di
flauti, un fremere a suon di marcia delle percussioni. Equilibrio, grazia,
scrittura: tutto condensato in cinque minuti che sembrano leggeri come una
piuma ma sono invece densi, densissimi (si prenda l'adagio dell'omonima
“Moonshine”, che sembra quasi fatta d'aria nei suoi svolazzi spensierati di
flauto; eppure, sul finale, questi, accompagnati dal violoncello di Marilyn
Sanson, conferiscono alla coda una gonfia consistenza classica).
L'intensità
di brani come “Brought with the Rain”, che unisce lamento blues (l'armonica di
Ralph McTell) a pose da menestrello scapigliato (quello dei Jethro Tull, ma
ingentilito e spogliato da ogni sovraccarico prog), o di “Night Time Blues”,
fiddle song impreziosita dagli arabeschi della chitarra, si alterna a
incantevoli e soffuse ballad sospese a mezz'aria: la cheta “The January Man”,
delicato sogno di interplay tra l'arpa di Skaila Kanga e le corde di Jansch; la
bellissima “The First Time Ever I Saw Your Face”, ripresa dall'album “Jack
Orion”, questa volta finemente riarrangiata con gusto jazz -anche se la
versione originale, nella sua essenzialità, era non meno incantevole- e cantata
in duetto con la popolare e talentuosa Mary Hopkin; la sognante “Rambleway”,
con quella chitarra elettrica onirica che puntella il grasso tappeto di
contrabbasso, mentre il violino segue il lamento di Jansch.
Un lavoro
che segna una vetta, un punto d'arrivo per Bert Jansch, che qui si dimostra
autore completo e fine musicista. Non solo: l'appassionata schiera degli ospiti
esemplifica ancora una volta il riguardo nei confronti di un autorevole e
rispettato padrone di casa, in ambito folk. Riedito dalla Earth Recordings,
“Moonshine” è pronto per essere riassaporato o, per i più giovani, debitamente
riscoperto.
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