Recensione ► Bert Jansch - Moonshine (Reprise, 1973)



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Va bene, il genio conta. Anche i maestri, però, hanno il loro peso: lo scozzese Bert Jansch impara a suonare la chitarra prima da Jill Doyle, nientemeno che la sorella di Davy Graham, uno dei nomi chiave del folk-revival inglese, poi da Archie Fisher e infine da Len Partridge, “a guy who’s a lifelong friend but he doesn’t playin public. He taught me a lot of blues”. A contare è anche il contesto, l’ambiente: in questo caso il “The Howff”, il folk club fondato da Roy Guest ad Edinburgo, sorta di santuario del folk britannico che vide passare gente come Sonny Terry e Pete Seeger. E poi ci sono le frequentazioni: Robin Williamson e Clive Palmer, ad esempio, i geniali futuri fondatori della Incredible String Band, con cui Jansch condivide ad inizio anni Sessanta un appartamento a Edinburgo.
La carriera vera e propria di Bert Jansch inizia quando, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per il mondo, nel 1964 si stabilisce a Londra: qui diventerà il nome di punta, assieme a John Renbourn, dei grandi Pentangles. Ma non solo: nel 1965 l’importante esordio solista intitolato “Bert Jansch” rappresenta il primo passo di una carriera duratura e, a posteriori, influentissima.

Di quella carriera “Moonshine” è forse il momento più autorevole. Jansch si rivela, nelle tracce del suo ottavo album, compostissimo e austero, spalleggiato da un mirabolante stuolo di collaboratori (Danny Thompson, Tony Visconti, Dave Mattacks…) ma padrone incontrastato di composizioni ricche e rifinite tanto dal punto di vista degli arrangiamenti (ora minimali, ora sontuosi) che da quello della grande sensibilità melodica di un songwriter ispirato come non mai.

Moonshine” riesce a fondere l'anima intimista di un Nick Drake alla vena “british” di gente come Fairport Convention e Fotheringay: “Yarrow”, che inaugura il disco, è una delicata ballata d'altri tempi, accarezzata dal timbro caldo ed elegante di Jansch, mentre sullo sfondo è tutto un pizzicare di corde, un levitare di flauti, un fremere a suon di marcia delle percussioni. Equilibrio, grazia, scrittura: tutto condensato in cinque minuti che sembrano leggeri come una piuma ma sono invece densi, densissimi (si prenda l'adagio dell'omonima “Moonshine”, che sembra quasi fatta d'aria nei suoi svolazzi spensierati di flauto; eppure, sul finale, questi, accompagnati dal violoncello di Marilyn Sanson, conferiscono alla coda una gonfia consistenza classica).



L'intensità di brani come “Brought with the Rain”, che unisce lamento blues (l'armonica di Ralph McTell) a pose da menestrello scapigliato (quello dei Jethro Tull, ma ingentilito e spogliato da ogni sovraccarico prog), o di “Night Time Blues”, fiddle song impreziosita dagli arabeschi della chitarra, si alterna a incantevoli e soffuse ballad sospese a mezz'aria: la cheta “The January Man”, delicato sogno di interplay tra l'arpa di Skaila Kanga e le corde di Jansch; la bellissima “The First Time Ever I Saw Your Face”, ripresa dall'album “Jack Orion”, questa volta finemente riarrangiata con gusto jazz -anche se la versione originale, nella sua essenzialità, era non meno incantevole- e cantata in duetto con la popolare e talentuosa Mary Hopkin; la sognante “Rambleway”, con quella chitarra elettrica onirica che puntella il grasso tappeto di contrabbasso, mentre il violino segue il lamento di Jansch.

Un lavoro che segna una vetta, un punto d'arrivo per Bert Jansch, che qui si dimostra autore completo e fine musicista. Non solo: l'appassionata schiera degli ospiti esemplifica ancora una volta il riguardo nei confronti di un autorevole e rispettato padrone di casa, in ambito folk. Riedito dalla Earth Recordings, “Moonshine” è pronto per essere riassaporato o, per i più giovani, debitamente riscoperto.


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