C'è un'ora, poco prima dell'alba, in
cui lo spazio si ricopre di una luce diafana, soffusa. Gli oggetti
appaiono sfocati, quasi irreali: sembrano prendere forma pian piano,
come venendo fuori da un mondo di sogno, costretti da quell'annuncio
del giorno che sta per arrivare.
C'era esattamente quella luce, quel
martedì mattina. E proprio quando il cielo si stava per schiarire,
il vecchio Umberto metteva piede nel suo piccolo paese adagiato in
una fredda conca abbracciata dalle montagne, immersa nei boschi. Si
stringeva nel pesante cappotto di pelliccia, portando un sacco di
tela sgualcita sulle spalle e trascinando un fucile da caccia che
appariva tanto vecchio e stanco quanto il suo proprietario. La vita
nel borgo era ben lungi dal destarsi. Solo poche finestre iniziavano
ad illuminarsi della luce fioca di un'elettricità incerta e
tremolante: quella della locanda, certamente, dove la signora Lina
era indaffarata a preparare le colazioni per i pochi viandanti che si
erano trovati a dover passar lì la notte. C'era anche la bottega del
fornaio che si apprestava ad esporre il pane dopo un
duro lavoro notturno. Quella mattina lui, il panettiere, era
sull'uscio. Seguendo con occhi attenti il passaggio del vecchio
eremita abbozzò con un movimento del capo un saluto primordiale. Umberto,
dal canto suo, tirò dritto bofonchiando - più scompostamente del
solito - senza accorgersi minimamente di quel gesto. Portava con se
l'umidità autunnale di una notte passata all'addiaccio, e l'odore
acre dell'uomo si mescolava a quello madido di foglie frullate e
sottobosco. Il panettiere seguì l'uomo fino a che non scomparve in
un vicolo che voltava a destra e tirava su a monte. Era lì che abitava il
vecchio: un ammasso rude di case
dissestate, abbandonate chissà quando in favore della più accogliente vita di
paese, o di quella ancora più provvida della città.
In quella giornata di autunno ci si
aspettava un bel sole limpido che avrebbe accesso i colori
della stagione inoltrata. L'arancione, il giallo, il rosso e il marrone
si accordavano con brio al grigio pietra delle casette di paese,
solidamente composte di materia autoctona: sassi e legno.
Proprio di sassi e di legno era fatta
la baracca dove da molti anni abitava Umberto. Una stamberga tanto
malandata da non distinguersi dai ruderi che le facevano compagnia
in quel borgo abbandonato. L'unico elemento distintivo era il camino
fumante, o i trucioli di legna sparsi sull'uscio, o ancora qualche
sgualcito panno steso ad asciugare. L'interno dell'abitazione era
altrettanto trasandato, o almeno così doveva essere. Nessuno era mai
entrato in quell'antro sporco e spaventoso. Solo i bambini più impavidi
si spingevano poco oltre lo sparuto steccato che, sebbene solo
simbolicamente, doveva avere la funzione di delimitare l'area di
proprietà di Umberto. E appena messo un piede, uno soltanto, oltre quel
limite astratto e invalicabile, scappavano a rotta di collo, per poi
fermarsi ansimanti più a valle, oltre il bosco, ormai lontani dalla
portata del temibile personaggio, per vantarsi con i compagni di
gioco della propria prova di coraggio.
Nessuno sapeva quale fosse il passato
di Umberto. Tanto si raccontava in villaggio sul suo conto, e molto
di ciò che si diceva era quasi certamente frutto di fantasie e
speculazioni. Si diceva si fosse ritirato nella più totale
solitudine, come un eremita, dopo la morte della moglie a causa di un
incendio. Qualcuno malignamente suggeriva che fosse stato proprio lui
a scatenare le fiamme. Si facevano supposizioni riguardo ad una
biografia tumultuosa e turbata, connettendo i pochi frammenti certi
su cui i più vecchi, in paese, erano pronti a mettere la mano sul
fuoco: mai andato a scuola, orfano presto (troppo presto), al lavoro
con le bestie e nei castagneti appena poco più che bimbo, fuggiasco
per la leva militare, forse anche in prigione una volta ricomparso. E
poi c'erano i boschi, quei luoghi che sembravano essere sempre stati
la vera casa di Umberto, sempre misteriosamente pronto a far capolino
alle ore più improbabili del giorno e della notte, come un fauno rigurgitato
fuori dalla fitta vegetazione. Pareva un vecchio albero dotato della
facoltà di movimento, a volte, più che un uomo. Ci si sarebbe
aspettato di trovare muschi e licheni su quel corpo nerboruto ma
irrimediabilmente piegato dagli anni e dalla fatica. Si diceva anche
che fosse un po' pazzo, Umberto. Quei suoi occhietti frenetici e
spiritati ne erano la prova. Sbucavano sulla faccia consunta come due
spilli, come due vividi lumicini. E parevano non chiudersi mai,
sempre fissi su un punto lontano, sempre persi nel vuoto. Umberto di
solito procedeva così, accigliato, bofonchiando frasi apparentemente
sconnesse e non degnando d'un saluto i pochi esseri umani che trovava
sul suo percorso. E quella mattina Umberto muoveva i suoi
occhietti con più frenesia del solito, e pareva agitato e nervoso.
In paese tutti si chiedevano cosa ci
facesse tutte le notti e i giorni a spasso nei boschi. Una cosa però
era certa: da diversi anni, in quel villaggio di montagna, si
fumavano ottime sigarette di contrabbando, si mangiavano carni
prelibate di selvaggina protetta e si bevevano alcolici forti
d'importazione. Nessuno però, stranamente, aveva mai avuto contatti
diretti con Umberto. Grazie alla fantasia, alle malelingue, alle parole sussurrate vergognosamente in rivoli di passaparola, il borgo era riuscito a conservare una facciata puritana e amena. Il prete aveva battezzato
diversi bimbi sbucati dal nulla, nel corso dei decenni. Qualcuno era
già grande e animava le scuole e i pascoli con un bel paio di
occhietti azzurri e vividi. Le madri avevano preso marito e
cancellato il peccato. Si sarebbe detto un villaggio santo, quello in
cui nessuno aveva mai avuto niente a che fare con Umberto.
Quel martedì, come già detto, Umberto
era stato più burrascoso del solito. I suoi stivali sgualciti erano
putridi ed infangati, i capelli color fumo appiccicati sulla fronte se
ne stavano lì immobili da chissà quanto tempo. Il respiro era
trafelato e gli occhietti si muovevano freneticamente, come a seguire
il moto disordinato dei pensieri sciolti. Appena arrivato a casa
gettò il suo pesante sacco a terra con un gesto di noncuranza.
Dentro c'erano teli, chiodi e ferri, più un paio di lepri che certo
non avrebbero fatto la felicità dei buongustai giù in paese, bastando appena per qualche pasto svogliato.
Doveva aver dormito all'aperto, riparato da quei teli malandati
piantati alla bell'e meglio nel duro terreno, o annodati a qualche ramo. Inutile dire che il
sonno era stato scarso e interrotto dai suoni della notte, dai
fruscii degli animali, dallo svolazzare di qualche rapace notturno.
Aveva dormito così poco che, senza nemmeno togliersi la pesante
mantella, il vecchio si gettò sul giaciglio sbrindellato per
piombare in un sonno lungo e delirante, turbato da incubi e fremiti.
Si svegliò ancora più agitato di come
era arrivato. Senza nemmeno darsi un attimo per riprendersi si alzò
trafelato, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa. Con uno
scatto si portò dall'altro lato della stanza, verso un armadio
scalcinato che aprì con forza, quasi scardinando le cerniere
arrugginite ed esauste. Afferrò un fucile ancora più vecchio di
quello che era solito portare a spalle nelle sue peregrinazioni nella
foresta: controllò lo scatto del cane, verificò la presenza delle
cartucce e si infilò a tracolla l'arnese. Era in uno stato di estasi
allucinata. Doveva compiere la sua missione, quella che negli ultimi
mesi lo aveva impegnato anima e corpo.
Infilatosi qualche straccio in più e
rimessosi sulle spalle il sacco di tela smunta varcò la soglia senza
curarsi di chiudere l'uscio, puntando verso il paese, diretto nel
fitto del bosco. “Lo trovo, lo trovo, Dio bono...”, diceva
farfugliando e smascellando scomposto. Camminando continuava a ripetere invocazioni deliranti, senza preoccuparsi che, una volta in
paese, qualcuno potesse notarlo. Arrivò a sbraitare, nel vero senso
della parola: “ora lo prendo!”, esclamava, “ora
lo prendo quel diavolo!”. E i bambini ridevano, restando un po'
timorosi a debita distanza. Le donne osavano appena alzare lo sguardo
e gli uomini stavano a fissarlo increduli e maligni, scambiandosi
occhiate complici: era ammattito del tutto, il vecchio Umberto.
Ad un certo punto il vecchio si fermò.
Si guardò intorno, usando per la prima volta gli occhi per puntare
chi aveva intorno. “Ve lo farò vedere io chi è
Umberto!”, proruppe. “Pulciosi cani, approfittatori
bastardi! Vedrete cosa vi tiro fuori dal bosco! E
vedremo chi riderà alla fine!”. Era come se avesse
percepito il disprezzo della gente, come se avesse colto la vergogna
che suscitava - da una vita - negli altri. Riprese il passo
allontanandosi velocemente, continuando a ripetere “vi faccio
vedere io, vi faccio vedere... un tesoro, vi porto!”. E qualcuno gli gridava: “ubriacone!”,
e qualcun altro “vecchio pazzo, vedi di non finire col culo all'aria!”. E tutti ridacchiavano e tornavano ai loro affari.
Quando sparì dalla vista, fagocitato
dalla montagna, la vita nel paese era tornata a scorrere come se
nulla fosse. Nessuno si curava di cosa volesse fare il vecchio
Umberto. A nessuno importava se ad un vecchio pazzo erano saltate
definitivamente le rotelle. Nessuno in paese voleva avere niente a
che fare con la miseria e lo schifo che Umberto rappresentava: un
residuo sporco di vita, un pezzo di natura bruta che, non si sa come,
era stato catapultato nel mondo dei civili umani. Se ne era
allontanato, come una bestia rognosa, avvicinandosene solo per
sporchi traffici sporadici. Per il mutuo sostentamento della vita, nel
caso di Umberto, per la coltivazione dei vizi, nel caso di tutti gli
altri.
Di tutto questo però, Umberto non si curava. Tirava dritto con il furore negli occhi, a grandi passi,
superando presto i confini di una civiltà
che aveva sempre scansato. Lui non era del loro mondo, era parte
della terra bagnata che calpestava, aveva lo stesso odore degli
animali selvatici che, celati nella vegetazione, lo scrutavano
guardinghi, aveva la resistenza delle cortecce degli alberi che
puntellavano i pendii stagliandosi come colonne solenni di una
cattedrale millenaria. “Ti trovo, ti trovo...”. Sarebbe
stata una lunga caccia, quella di Umberto. La caccia di una vita. “È
tutto d'oro. Si nasconde”, sibilava il vecchio mentre divorava
i sentieri. “Tutto d'oro... luccica al buio... di notte lo devo
stanare, di notte! Una fortuna... Mi sfida, maledetto. Il diavolo è,
il diavolo... Mi sfida... Ma lo trovo, lo trovo!”, ripeteva
furente.
La sera finì con l'arrivare presto, le
giornate erano ancora corte. E quando la luce iniziò a mutare
d'intensità, facendosi radente e obliqua, Umberto camminava ancora.
Si fermò solo un attimo prima del completo calare del buio, già ben
lontano dal suo punto di partenza. Le sua gambe erano salde e forti,
ben temprate da anni di scarpinate infinite. Umberto si fermò,
accese un fuoco e, dopo aver svogliatamente azzannato qualche
precario boccone, si stese sotto una pesante coperta
sdrucita. Il sonno non arrivò subito: la mente di Umberto era
infestata da quel pensiero fisso, quella caccia miracolosa che
l'avrebbe impegnato fino allo sfinimento, che avrebbe riabilitato un
senso di esistere perso da tanto tempo. Quella creatura che
lui avrebbe stanato e ucciso continuava ad affiorare nei suoi
pensieri non appena provava a chiudere gli occhi per arrivare più
in fretta al domani. E così si trovava a scuotersi e bestemmiare,
con lo sguardo vivo e impazzito, fisso nel vuoto della notte animato
dalle più stravaganti fantasie.
Il giorno arrivò come un pugno.
Umberto era stanco, una stanchezza nuova, che fiaccava le membra e
toglieva il respiro. Indolenzito si alzò, si preparò una tazza di
caffè acquoso per riscaldarsi le ossa, dopodiché gettò un po' di
terra sui tizzoni ardenti, pisciò, sputò per terra e si mise
nuovamente in cammino. Tirava dritto inoltrandosi in una vegetazione
sempre più fitta e ostile, trascinando quel suo corpo con
un'ostinatezza eroica, solenne. Arrivò ad un torrente, si chinò e
bevve a grandi sorsi l'acqua gelida. Si sentì subito meglio. Durante
il cammino, di tanto in tanto, si fermava e fiutava l'aria come un
cane: allora scartava rapidamente, prendendo ogni volta una via più
impervia di quella che aveva appena lasciato. Il cuore del bosco lo
accoglieva e lo avviluppava, ingurgitandolo e rendendolo sua
componente organica. Umberto continuò così fino alla fine di quel
secondo giorno, masticando qualche brandello di carne essiccata e
sparando a qualche bestiola per le scarne provviste che lo avrebbero
dovuto sostentare nella lunga caccia.
Fu verso la fine del terzo giorno che
il corso di quella folle e scomposta cavalcata subì una svolta.
Erano ormai le cinque del pomeriggio, quando Umberto - che ormai aveva
assunto i colori di quel paesaggio ostile e disabitato - si fermò
piantando i piedi a terra. Si chinò piano, e in ginocchio strisciò
dietro ad un groviglio di vegetazione. Sbirciando al di là dei
cespugli e dei rovi sentì il cuore congelarsi, per poi ripartire di
botto, spruzzando nelle membra un fiotto caldo. Era lì, appena
celato dalla morfologia brulla del terreno e dalle piante ritorte.
Era lì e brillava, infondendo attorno a sé come una tenue aurea
dorata. Era un cervo, un cervo di dimensioni imponenti. Camminando sembrava ricevesse il favore dei rami e delle piante che
si scostavano riverenti al suo passaggio. Procedeva imperioso, e il suo manto era
costellato da riflessi paglierini che scintillavano fluidamente
seguendo i contorni della muscolatura tornita.
Umberto imbracciò cautamente il fucile
e prese posizione. Era nervoso e scosso dai fremiti. Fece un paio di
respiri profondi e si convinse. Strinse l'arma, fece un altro
respiro, mirò all'animale e fece partire un colpo che rimbombò per
poi spegnersi inghiottito dalla foresta. Il cervo ebbe un sobbalzo,
scattò in avanti con un salto e dopo una breve corsa si fermò
nuovamente. Aveva evitato il proiettile, il quale si era fuso per sempre nel terreno. Umberto sentì il sangue gelarsi:
quell'animale, dopo aver lanciato un paio di profondi bramiti, lo
stava ora fissando, e lo faceva con uno sguardo gelido e diabolico,
come mosso da un moto di furia e di sfida. Una bestia venuta dritta
dall'inferno, pensò Umberto: il vello era ispido come muschio, nonostante i
riflessi dorati che si diramavano in venature abbaglianti, lo sguardo
era feroce come quello di un lupo, la stazza imperiosa e massiccia.
L'andatura, però, era mansueta e regale. Dopo aver lanciato un
violento sbuffo, la bestia scomparve alla vista. Umberto era senza
respiro, ma si alzò lanciandosi all'inseguimento. Dopo pochi passi,
però, notò che la stanchezza era diventata insostenibile: le gambe
dure, la testa pesante, il fiato corto. Non poteva mollare, non
adesso. Poteva scorgere il lieve bagliore del cervo in lontananza, ma quando raggiungeva i passi della bestia, quando la sua figura
si faceva nuovamente nitida, la bestia tornava a scattare in avanti,
costringendo Umberto ad una nuova rincorsa, senza che fosse riuscito
nemmeno a mettere il dito sul grilletto.
La notte era ormai giunta, e Umberto fu
costretto a fermarsi, stremato da quella marcia ininterrotta. Non
accese nessun fuoco, si stese semplicemente a terra, trovando a
stento le forze per srotolare le coperte. Il sonno non
arrivò. Umberto poteva percepire il fruscio delle foglie calpestate
dal cervo, poteva sentire i suoi respiri, poteva percepire i bagliori
che rischiaravano flebilmente la tenebra a poca distanza dal suo
improvvisato giaciglio. Il cervo non aveva intenzione di dileguarsi,
pensava Umberto: voleva spronarlo alla caccia, lo stava sfidando! Non
poteva durare tutta la notte così. Non poteva aspettare fino al
mattino, anche se le forze lo avevano quasi del tutto abbandonato.
Decise però che valeva la pena distendere per qualche minuto le
membra, prima di riprendere la caccia. Chiuse gli occhi provando ad
ignorare i richiami della bestia. Si svegliò che era ancora notte,
stordito.
Lo prese il terrore che l'occasione di
una vita fosse sfumata, che il gigantesco cervo fosse scomparso per
sempre. Prese il fucile e, noncurante delle sue cose lasciate a
terra, si inoltrò nell'oscurità procedendo alla cieca, mosso da un
delirio che lo rifocillava di un'energia folle, insana, che però
bene adempiva al ruolo di sostenere il vecchio corpo disfatto. Ed
ecco che il bagliore dorato tornò a brillare nel mezzo del bosco, proiettando ombre contorte tra le cortecce bitorzolute. Il vecchio Umberto
camminava cercando di tenere il passo dell'animale, facendosi trascinare nel più profondo della montagna. Ad un certo punto il
cervo si fermò. Il vecchio lo poteva vedere, là in basso, in una
conca verdeggiante delimitata dagli alberi: una piccola arena di erba
alta, dove l'animale si era fermato, ergendosi come una statua, dando
le spalle ad Umberto. Fu a quel punto che l'uomo si poté chinare,
lentamente. Si levò dalla spalla il fucile, lo imbracciò, prese la mira puntando la canna verso la bestia, e quella, come tutta
risposta, dopo un rapido sguardo, sembrò disinteressarsi
completamente a Umberto, accucciandosi sul prato. Umberto ci pensò
qualche secondo, infine premette il grilletto. Lo scoppio fu tremendo
e squarciò la notte. Umberto aveva chiuso entrambi gli occhi, colto
dal micidiale timore nel vedere finalmente compiuta l'impresa di
una vita. Li riaprì lentamente, stordito e come ubriaco di emozione.
Il cervo era ancora lì, appena sotto la scarpata, immobile. Non
sembrava aver accusato il colpo, anzi, respirava placido.
Umberto si sentì investire da una
vertigine. Si alzò di
scatto, ormai completamente fuori di sé, impugnò il coltellaccio
arrugginito che teneva appeso alla cintura e si lanciò in una corsa
cieca contro l'animale, che a quel punto ricominciò a
correre, sempre mantenendo un'andatura che pareva calibrata per non
seminare del tutto il vecchio cacciatore. E di nuovo i due si
lanciarono nella foresta: il cervo elegante e imperioso, il vecchio
sconvolto, graffiato e percosso dai rami, assaltato dalle
buche e dai massi che cospargevano il terreno. Respirare,
per Umberto, stava diventando una tortura, ogni minimo movimento
un'agonia. Bastò poco, in quello scomposto procedere a tentoni,
perché il vecchio non si accorgesse di un brusco pendio, di un salto
di roccia nuda. Si trovò frantumato al suolo senza nemmeno aver percepito il vuoto allo stomaco. Il grosso cervo
dorato era lì, a due passi, e lo guardava. I suoi occhi non erano più diabolici e
spiritati. Sembrava una
creatura del cielo, uno spirito gentile dei boschi. Il sole si sarebbe levato a breve.
Nessuno ebbe più notizie di Umberto,
in paese. Era scomparso nel nulla, così come dal nulla era sembrato
arrivare. Per mesi in paese circolarono le voci più bizzarre sulla sua scomparsa, fino a che si accettò l'idea che
al vecchio fosse preso un accidente durante una delle sue traversate,
e tanti saluti. La memoria di Umberto rimase nelle storie e nelle
leggende, oltre che negli occhi di qualche giovanotto forte
e svelto. La sua baracca divenne preda dei rovi, covo di
serpenti, tana di bestie selvatiche. Un avvicendamento del tutto
naturale, in fondo. La vita nel borgo, intanto, continuava il suo corso, come se
niente fosse. Senza gli agi d'un tempo, certo. Umberto, dal canto
suo, era diventato terra dopo aver rincorso un sogno, o una follia,
come direbbe qualcuno. Era ridiventato bosco dopo avere rifiutato la
civiltà per tutta la vita. Su di lui, ora, cresceva il muschio, si
accumulavano le foglie, prendeva vita la vegetazione. Una pace più
grande, Umberto, non avrebbe mai osato immaginarla.
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