Eleazar


lazzaro, bonnat, art, racconto matteo castello
Il problema peggiore è la puzza di morto. Una cosa disgustosa. Da diversi giorni non va via, e ammorba le mie giornate, ricordandomi da dove arrivo. Da dove sono tornato. Tutta Betania, dopo un primo momento di euforia, mi evita come si evita la peste. Deve essere insopportabile stare vicino a me, sono un morto che cammina, per quanto abbia fatto scalpore come “tornato in vita”. Ma che vita è questa, se sa ancora di morte? Mi sto ungendo e profumando, strofino la pelle - che intanto ritorna a prendere il suo colore normale - con forza, mi immergo in acqua e cerco di stare quanto più possibile all'aria e al sole.
Ho preso subito appetito, non appena tolte le bende. Nonostante le acclamazioni dei presenti, gli abbracci delle sorelle, la Sua presenza e gli occhi arrossati dei molti, la mia prima preoccupazione è stata quella di mangiare. Pane d'orzo insaporito con olio, pesce essiccato, qualche tocco di carne, vino e miele. In un attimo, allo stupore di trovarmi come uscito da un sonno pesante e nero si è sostituito, anzi, è divampato, il desiderio totalizzante di riempire lo stomaco -mi sembrava di essere a digiuno da anni. 
Non mi reggevano le gambe, mi si è oscurata la vista, così sono stato portato in braccio fino alla mia abitazione, e lì sono stato deposto e dissetato. Dopo essere stato pulito e profumato è arrivato il momento della cena. Portavano bevande dolci, legumi essiccati, formaggi e cibi speziati di ogni tipo. Ho vissuto i primi due giorni di resurrezione come l'ultima settimana prima della morte: disteso, senza forze, immerso in una nebbia incosciente ma spezzata, questa volta, da attimi intensi di famelica bramosia animale. Dopodiché ho trovato le forze per alzarmi e uscire. Il sole troppo forte per gli occhi abituati alla penombra mi ha costretto a filtrare la vista con un panno sgualcito, che non mi ha però impedito di vedere i volti timorosi e increduli dei presenti che stazionavano fuori dalla mia casa dal giorno del miracoloso risveglio. Pensavo che se avessi avuto degli occhiali da sole sarebbe stato perfetto, ma allora non li avevano ancora inventati. Ho fatto qualche passo, mentre i bambini si avvicinavano e mi toccavano e ridevano tra loro. Mi sono fermato all'ombra di un vecchio ulivo, adagiato su un muretto a secco. Ho per la prima volta fatto un respiro profondo, traendo godimento dalla brezza che faceva frusciare le foglie e portava con sé l'aroma caldo delle colline arse.
Poi però è sopraggiunta l'ansia. In poco tempo sarebbe venuta la Pasqua, in quell'aprile che era stato considerato giustamente “il mese più crudele” da qualcuno, e Lui sarebbe stato ospite alla nostra tavola. La cosa mi turbava. Sapevo che la sua impresa aveva suscitato sentimenti contrapposti: le folle cominciavano a venerarlo come un profeta d'altri tempi (quei quattro che si dichiaravano più famosi di lui non avevano capito nulla di cos'è la celebrità, cosa comporta. Forse uno di loro sì, a dire il vero), mentre il Sinedrio era sempre più in allarme. Caifa non vedeva l'ora di sbarazzarsene, e avevo la netta sensazione che l'avrebbe fatto molto presto, in un modo orribile. Credevo che Joshua fosse un pazzo a comportarsi in quel modo: sapeva dei pericoli, sapeva che attorno a lui stava montando l'odio dei sacerdoti, dei farisei. Sapeva tutto e non faceva nulla per sottrarsi dalla vampata d'ira che avrebbe finito per divorarlo. E poi non sapevo che atteggiamento assumere nei suoi confronti: venerarlo anche io? Per avermi riportato qui con questa strana sensazione addosso? Con questo odore? Mi sarebbe riuscito difficile. Più che altro avrei voluto chiedergli: perché proprio io?
La verità è che, da quando mi sono ripreso, la vita non ha più lo stesso sapore. Fin dal primo istante ho sentito un'oppressione, un alone nero e vuoto che incombeva, ho sentito i miei contorni sfumare e perdersi, smarrivo il senso della corporeità.
Mi sono reso conto dell'ansia parlando con Miryam, quello stesso giorno. Era ormai sera, e dopo un abbondante pasto sia io che mia sorella eravamo intenti ad ammirare le fiamme del camino, assorbendo il tepore del fuoco. Nessuno dei due aveva sonno, a discapito del crollo inesorabile che aveva colto Marta, già assopita nel suo giaciglio. La notte aveva portato con sé il fresco e il silenzio, che non faceva che arrovellare un senso di fascino e timore. -Come stai?, mi ha chiesto Miryam all'improvviso, rompendo un silenzio scheggiato solo dal crepitio della legna. Era evidentemente mossa da una curiosità che andava ben oltre le premure circa il mio stato di salute. Non volevo toccare l'argomento, non per primo.
-Abbastanza bene, anche se mi sento ancora scosso.
Dopo qualche attimo di silenzio lei ha fatto un sospiro, facendo per parlare. Quindi si è fermata, ma i suoi occhi brillavano e tremolavano. -Cosa vuoi sapere, Miryam?, ho chiesto.
-Vedi, Eleazar, quello che ti è successo è strano e... e ci ha riempiti di gioia.
Stava indugiando, temeva di essere troppo diretta. Così mi sono fatto avanti. -È stato strano, si, lo ammetto. Ma tu vuoi domandarmi altro, vero?
A quel punto non le è rimasto che lanciarsi. -Cosa ti ricordi di quei quattro giorni? Dov'eri mentre noi ti piangevamo? Com'è dall'altra parte?, ha chiesto con impeto crescente Miryam.
Ho chiuso gli occhi per un istante, cercando di sforzarmi di ricordare. Ci doveva essere qualche sfumatura, qualche rimasuglio di quella discesa nell'oscurità. Invece no, non ricordavo nulla. Era stato come un sonno senza sogni, rapido, impercettibile, inesorabile. Ho provato a trovare un qualche appiglio ma non c'era niente di niente. Così ho risposto. -Nulla, Miryam. Non ricordo nulla. Solo vuoto. Non c'è niente. Mi spiace.
Era questa l'oppressione che avevo tentato di scansare in quei giorni. Non avevo nessun lascito di quell'esperienza ultraterrena, e la cosa mi terrorizzava, perché sarei morto due volte, sapendo, una volta arrivata la seconda, che quello che mi aspettava era il vuoto. “Lasciate ogni speranza, voi che entrate”. Sarebbe stato bello ricordarsi trombe angeliche, spianate paradisiache di verdi pascoli, canti e pace perpetua. L'Eden. Ma niente di tutto questo era trapelato durante la mia assenza, durante la mia morte. Gli occhi di mia sorella si sono allora velati e abbassati, ho percepito un suo fremito. Si rifiutava di credere che, nonostante le parole di quell'amico in cui lei aveva detto di avere fede, le speranze erano vane. La sua figura affranta mi ha costretto a parlare, cercando di darle conforto. Dovevo smentire l'insostenibile verità, nascondere l'annichilente evidenza. -Ma, a dirla tutta, è possibile, anzi è sicuro, che la mia mente abbia rimosso, che tutto sia stato cancellato. Come una pellicola fotografica esposta al sole. Come un'amnesia dopo un trauma.
Miryam a quel punto ha alzato la testa e mi ha guardato. -Una pellicola fo... Di cosa parli, Eleazar? Non capisco. Vorrei capire.
In quel momento sono trasalito. Come potevo spiegarle qualcosa che non esisteva? Non esisteva ancora, almeno. Come facevo ad avere nella mia mente l'idea di pellicola fotografica, a percepirne lo scopo, l'utilità, la futura esistenza? Era inverosimile. Era da pazzi. Avevo in me la nozione di camera oscura, di esposizione. Era come se conoscessi i fratelli Lumière e Man Ray. C'era qualcosa di strano e inesprimibile. Il tempo, quello futuro e quello passato, si coagulava in me come un tutt'uno, come un piatto dove gli estremi erano collegati lungo un'unica circonferenza. Avevo consapevolezza dell'Eternità. Qualcosa di inesprimibile, appunto. E infatti non l'ho espresso, in quel momento, a Miryam. Le mie rassicurazioni non erano servite a confortarla troppo.
-Dovremo parlare con Joshua, -ha detto- forse lui ci spiegherà.
-Si, parleremo con Joshua, Miryam, se ne avrà voglia.
Myriam si è alzata e, congedandosi, si è messa a dormire. Io non avevo sonno, ero ancora turbato e incuriosito dal mio stato. Non credevo di sapere veramente le cose che ogni tanto mi balzavano in testa. Era più come se queste fossero parte di me, oppure che io fossi parte di loro. Potevo percepire come degli eco che provenivano da anfratti remoti del tempo, incapaci di fissarsi in conoscenze vere e proprie, in sapere organico e lineare, ma in grado di stagliarsi nei pensieri con una nitidezza inconfutabile. Mi sono messo a sondare quelli che sembravano ricordi. Ho visto le rivoluzioni di tutti i popoli, le bombe atomiche e gli assedi, potevo conoscere le usanze degli abitanti sperduti dell'altro capo del mondo, di millenni fa, di millenni ancora a venire. Mi sono dovuto fermare, stavo spingendomi oltre. Ma in qualche modo ero sicuro, ora sì, di non aver mentito, non del tutto, a mia sorella. Certo, continuavo a vedere solo buio, portando i ricordi a quei quattro giorni di decadimento. Però mi ero immerso in un flusso che adesso permeava ogni mia fibra, ogni mia cellula.
Era una percezione travolgente, poteva annientarmi. Rimanevo, in quel frangente -non per molto ancora- un essere finito, incapace di espandersi tanto quanto quei bagliori d'infinito. Così mi sono deciso a coricarmi. Non prima però di andare a prendere una boccata d'aria fresca sull'uscio. Tutto era spento e oscuro, nulla fremeva in quella notte in Giudea. Di colpo mi sono reso conto che l'ansia era sparita, e che il cuore aveva ripreso a battere con ritmo regolare, il respiro a farsi meno affannoso. D'impulso ho portato il braccio alle narici e mi sono annusato. Il lezzo di morte era scomparso, rimaneva solo la fragranza degli oli e del fumo di legna.
Sapevo che non avrei parlato con Joshua, non avrei cercato di chiedergli nulla. Capivo che il suo percorso difficile doveva continuare: non volevo turbarlo più di quanto non fosse, presumibilmente, già. Però gli avrei sicuramente fatto versare del vino, gli avrei fatto lavare i piedi e l'avrei fatto profumare. E, dall'altro lato del tavolo, gli avrei sorriso, e sorridendo gli avrei fatto un'occhiolino. Sarebbe stato sufficiente, ne ero certo.


Matteo Castello
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