Era morta Marilyn. Lo gridavano un po’ tutti i
giornali ma, quella mattina, Kim Carter si sentiva davvero in forma. Sui
giornali, in bianco e nero, sembrava anche più bella ma le mancava qualcosa,
vitalità. Immobile, sorridente ma… così morta. Da tutti gli angoli, in ogni
edicola, la sua faccia gioiosa, allegra e vitale si stagliava enorme e radiosa.
Kim Carter la fissava negli occhi, seduto in tram, sconvolto da quel “MARILYN
DEAD” stampato a lettere cubitali appena sotto il volto angelico. Le lettere
enormi, cariche di un significato che non riusciva a cogliere appieno, gli
martellavano la mente come colpi di ariete. Non riusciva a concepire il vero
significato di quella tragedia. Cosa gliene fregava a lui se era morta Marilyn?
Era una donna come tante altre, non era sua moglie, non lo aveva mai amato, non
l’aveva nemmeno mai vista dal vivo. Era bella, sì, stupenda, l’aveva sognata
spesso, quanti viaggioni con Marilyn, però… Chi era Marilyn?
Kim Carter non capiva, cos’era cambiato, cosa stava
cambiando? Il vecchio Joe gli avrebbe forse concesso finalmente un aumento?
Magari quella mattina Joe si era svegliato di malumore, si era alzato dal letto
e non aveva trovato la colazione pronta. Stanco, pigro e infastidito il vecchio
magari si era messo a cristonare scendendo le scale, i rotoli di pancia
ballonzolanti a tratti fuori dai pantaloni del pigiama. “Pessima giornata” avrà
pensato Joe mordendo pigramente i plum-cakes ormai gelidi del giorno prima
nella cucina deserta. Forse Joe era uscito in strada di fretta, con i plum-cakes
ancora sullo stomaco e la brutta sorpresa dell’ombrello rotto. Forse, sotto la
pioggia martellante, aveva raggiunto di corsa l’edicola e probabilmente, di
fronte alla bionda regina morta, aveva esclamato: “anche Marilyn no! Ma che
giornata di m****!” Il caso o il destino sicuramente quel mattino si erano
messi d’accordo e avevano fatto arrivare Joe in ritardo in ufficio, bagnato,
con la colazione in subbuglio nello stomaco e l’elogio funebre della sua
attrice preferita tra le mani.
Perché doveva morire proprio oggi Marilyn? – pensò Kim
Carter.
Magari quel mattino Joe non vedeva l’ora di licenziare
qualcuno e il primo impiegato in ritardo avrebbe pagato per quei plum-cakes
freddi, per quella corsa sotto la pioggia e soprattutto per la morte di
Marilyn.
Sì, qualcuno doveva pagarla per Marilyn – pensò Kim
Carter. E quel qualcuno potrei anche essere io – aggiunse un istante dopo, con
grande tristezza.
Kim Carter non voleva essere licenziato.
In realtà, quel mattino, Joe si era svegliato di ottimo
umore. La colazione era già pronta sul tavolo ad attenderlo e, con sua
grandissima sorpresa, sua moglie era già uscita senza aspettarlo. Niente
litigata mattutina, niente finte cortesie e soprattutto una grandiosa colazione
che aspettava soltanto di essere divorata. Uscendo di casa, la situazione migliorò
ancora: una sole splendente inondava la città e stimolava la digestione. Con il
sapore dei plum-cakes caldi ancora in bocca, Joe marciò fischiettando lungo il
viale di casa finché non raggiunge l’edicola e... il miracolo.
Finalmente Marilyn era morta. Quella puttana. Lei come
tutte le altre! Un sorriso sincero si allargò sul faccione bonario di Joe.
Quella si che era una buona notizia!
Kim Carter uscì dall’ascensore con circospezione. Il
corridoio pallido e sbadigliante delle 7 di mattina lo aspettava deserto e
silenzioso di fronte a lui. Luci soffuse lasciavano il portone di mogano nella
penombra mentre le porte sui lati, gli uffici del personale, erano ben
visibili. L’uomo controllò che anche i corridoi di fianco fossero ancora
addormentati e, quando accertò che non c’era anima viva, avanzò lentamente.
Erano solo tre porte, una decina di metri, e poi sarebbe stato al sicuro nel
suo piccolo nido. La porta di mogano fuori, lui dentro. Una dozzina scarsa di
metri quadri d’ufficio ma almeno era il “suo” ufficio. Pochi passi e avrebbe
evitato Joe almeno fino all’ora di pranzo. Forse col tempo il capo si sarebbe
calmato, forse non sarebbe stato licenziato oggi. Un passo alla volta, superò
le prime due porte. Posò la mano sulla maniglia del suo ufficio, l’abbassò di
scatto preso dall’eccitazione, si tuffò dentro e chiuse la porta alle sue
spalle, ansimante. Si rese conto di essere sudato fradicio: grondava sudore. Ma
almeno ce l’aveva fatta.
Non fece in tempo ad arrivare alla scrivania che un
odore pungente gli sfiorò le narici e gliele fece fremere di ansia. Ancora
sudato e sovraeccitato, Kim Carter riconobbe istantaneamente l’odore acre del
fumo. Si girò e il cuore gli balzò in gola: una sottile striscia di fumo era
chiaramente visibile: proveniva da sotto la porta. Kim Carter rimase immobile
nell’indecisione, era paralizzato. Gli era costato così tanto entrare e adesso…
Fu l’inerzia a muoverlo verso la porta. Sapeva già
cosa lo aspettava. Il fumo proveniva dalla porta del boss. Perché, perché? Si
diresse verso il portone di mogano a malincuore. Il fumo sgorgava copioso,
ormai inondava l’intero corridoio quasi come un fiume in piena. Con il fumo
alle caviglie, così denso che non riusciva nemmeno a vedersi i piedi, Kim
Carter arrivò fino alla sorgente di quell’incubo. Sottili riflessi d’inferno si
scorgevano dalle fessure. Spalancò le porte con un colpo solo e si trovò di
fronte ad uno spettacolo infernale.
Il vecchio Joe era chino sulla scrivania, circondato
dalle fiamme. Il viso giocondo si era trasformato in una maschera di perversa soddisfazione. I muscoli tesi in un ghigno diabolico e gli occhi iniettati di
sangue. Era circondato da cumuli e cumuli di carta, giornali, quotidiani,
riviste. Tutti in fiamme. Con le mani stracciava freneticamente le copertine
con l’ossessione di una rabbia repressa. Kim Carter rimase immobile, circondato
dalle fiamme, a fissare quello che una volta era stato il suo capo aggredire
migliaia e migliaia di ritratti della bionda Marilyn. Lei lo fissava in
lacrime, con il volto sfigurato dalle fiamme, dal fumo e dal calore. I biondi capelli
ormai ridotti ad una massa indistinta di fil di ferro bruciacchiato. I tratti
deformati, quasi irriconoscibili. Solo gli occhi si levavano ancora puri e
intatti dalle copertine dei quotidiani. Migliaia di occhi in lacrime. Kim
Carter incrociò i suoi mille sguardi ancora fermo sull’ingresso, le braccia
spalancate ad aprire le porte in un gesto congelato nel tempo. Sconvolto. Ma ciò che lo
ferì profondamente nell'orgoglio fu l'immagine di lei che si sporgeva da ogni
foglio. Sogni d’infanzia bruciavano sotto i suoi occhi, implorando pietà.
Lui immobile,
ricambiava lo sguardo.
L’indecisione e
la preoccupazione erano immobili sulla porta a guardare la bellezza dissolversi
sotto le fiamme dell’ira. La dea dell’amore bruciava davanti agli occhi della
timidezza, un sognatore solitario la fissava scomparire lentamente senza
muovere dito. L’odio e l’avidità ghignavano al centro di quello scempio, stracciando
ogni ricordo della beltà perduta. La storia del mondo degenerava in pochi
istanti, nell’indifferenza generale.
Il cuore del
mondo piangeva quello strazio.
Io quella mattina mi svegliai tardi, i postumi della
sbronza mi annebbiavano ancora la mente mentre scendevo in strada. Passando
davanti all’edicola non scorsi nemmeno i titoli cubitali. Scoprii che Marilyn
era morta soltanto quella sera.
<Marilyn chi?>
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