Eppure, da mesi ormai, non riuscivo più a metter mano ad una penna, non mi era nemmeno possibile pensare all'idea astratta dello scrivere, tanto che lo studio dove ero solito rinchiudermi per ore a creare i miei romanzi iniziò a sembrarmi un luogo proibito e lontanissimo, nonostante fosse ambiente tutt'altro che separato all'interno dell'appartamento dove alloggiavo. Tormentato com'ero dall'invalicabilità di quella barriera immaginaria, mi costringevo a vagare per le strade in preda all'angoscia e all'ansia, trovandomi a sera soffocato dal peso dell'insoddisfazione e dal rammarico per aver concluso un altro giorno senza che nulla del mio estro creativo si fosse ravvivato. Evitavo quei luoghi altolocati che tanto mi davano appagamento, e così aumentava lo sconforto e il senso di solitudine. Mi sentivo ostracizzato per sempre pur sapendo che l'esilio me l'ero imposto da solo per paura di dover rendere conto circa la mia inattività.
Fu così che iniziai a bere. Nei
bicchieri vuotati trovai un rimedio, ahimè effimero e ingannevole,
all'aridità che mi prosciugava. Nel bere trovavo compagni di
sventura, fantasmi della mente cui congiungermi e un intorpidimento
che mi permetteva di offuscare la consapevolezza della rovina.
Divenni così pallido e sciupato che sembravo io stesso uno spettro,
un residuo umano che vagava penoso per le vie buie della città. Fu
questo stato pietoso che mi contraddistinse per diversi mesi, fino a
che, in un attimo di lucidità, mi convinsi che dovevo cercare un
approdo al morbo che mi stava consumando.
Un mio vecchio amico, di cui non avevo
notizie da molto tempo, abitava fuori città, in una landa desolata
che aveva ereditato dal padre, ricco proprietario morto in rovina. Il
figlio aveva però accumulato un capitale sufficiente a rimettere in
sesto i beni di famiglia e qui si era stabilito in piena solitudine,
visto il suo carattere diffidente e timido. La sua solitudine e
l'antico affetto che ci legava mi convinse a fare i bagagli e, dopo
un prudente avviso circa il mio intento di fargli visita, lasciare la
mia abitazione per mettermi in viaggio verso la campagna.
Il viaggio si rivelò lungo e tortuoso,
dipanandosi lungo un fitto intrico di foreste e strade secondarie
dissestate, tanto che dopo un giorno intero di cavalcata ancora non
ero giunto a destinazione. Fu solo a notte inoltrata che la mia
prospettiva si aprì sulla spianata dove sorgeva la casa del mio
vecchio compagno di gioventù. Una fitta nebbia ristagnava sulla
spianata dove si ergeva il maniero cui ero diretto, tanto che fu solo
grazie ad un momentaneo diradarsi della coltre che potei rendermi
conto di essere proprio di fronte alla facciata principale
dell'edificio. Appariva incredibilmente cupa, la roccia nera era
percorsa qui e là da rampicanti lasciati crescere nell'incuria,
mentre dalle finestre non traspariva -vista l'ora tarda- alcuna vita
interna. Sul grande portone di legno scuro era incastonato un
massiccio batacchio in ferro, che recava lo stemma della famiglia dei
padroni di casa. Potei notare che si trattava di una bestia esotica,
un leone imbruttito nell'atto di un minaccioso ruggito. Non feci
troppo caso al biglietto da visita poco invitante e bussai. I colpi
echeggiarono nel buio, senza risposta. Fu solo dopo diversi minuti
che sentì dei passi dirigersi verso l'ingresso. Passi lenti,
trascinati. Con un colpo secco, quasi come se quell'antro non si
fosse aperto da decenni, il portone si spalancò, cosicché potei
entrare nel cortile. Qui consegnai il cavallo ad uno stalliere,
visibilmente imbambolato dal sonno, e mi feci accompagnare verso
l'uscio dal domestico. Era così vecchio e smunto da sembrare un
fantasma. Suscitava in me una grande ripugnanza, come pochi uomini
fino a quel momento erano riusciti a fare. Una testa stranamente
ingrossata, delle mani secche e macchiate, i pochi denti rimasti in
uno stato di disfacimento ributtante, gli occhi come impegnati in una
spinta fuori dal cranio per non perdersi nemmeno un briciolo di luce.
- Il padrone riposa, mi disse
con un sibilo tremolante, vogliate attendere domani per porgergli
il vostro saluto. Seguitemi, vi porto alla vostra stanza.
Così feci, dal momento che il viaggio
mi aveva oltremodo logorato ed ero ridotto ad un ammasso intirizzito
e tremante. Era così tanto che non mi spostavo dalla città che
quasi mi ero dimenticato di una gioventù passata a viaggiare per
l'Europa, prima che la maturità mi vincolasse nei suoi ritmi
ripetitivi e abitudinari. In più, l'alcool aveva così corroso il
mio fisico che più volte, durante il viaggio, avevo avuto la voglia
di tornare indietro, sentendomi oppresso dalla fatica. Appena entrato
in camera mi stesi sul letto e d'un colpo mi addormentai.
I sogni che feci quella notte furono
orrendi. Entravo in un luogo oscuro, come delle segrete di altri
tempi, dove camminavo su viscide creature che cercavano di
arrampicarsi, con le loro zampette pungenti, sulle mie gambe.
Nonostante il ribrezzo continuavo a camminare. Fino a che una
presenza -perversamente dolce- mi invitava a seguirla, per tramutarsi
poi con mio grande orrore in un corpo disfatto e putrescente, che mi
attirava a se in una stretta mortale dalla quale era impossibile
divincolarsi.
Mi svegliai trafelato alla prima luce
del mattino. Una luce diafana, flebile. Ebbi appena il tempo di
riprendermi che qualcuno bussò alla porta: era il domestico che mi
invitava a scendere nel salone principale per la colazione. Mi detti
una rapida sistemata e mi diressi lungo il corridoio nel quale si
trovava la mia stanza, fino a raggiungere le scale che la sera prima
avevo percorso quasi senza fare caso alla vorticosa ripidità dei
gradini. Solo ora notavo, nell'architettura di quel palazzo, qualcosa
di insolito. Ogni elemento si protendeva verso l'alto facendosi
aguzzo. Dominavano gli spigoli e i motivi ascendenti, dalle vetrate
prolungate agli archi a sesto acuto delle volte, per una sorta di
ibridazione gotica dal sapore austero ma ridondante di dettagli. Una
volta giunto nel salone l'angusto insieme di elementi si diradò, per
aprirsi su un vasto assortimento di tendaggi porpora e mobili di
legno scuro, tra cui il tavolo posto in mezzo alla stanza, dove era
seduto il mio compagno di gioventù. Appena mi sentì arrivare si
alzò e mi venne incontro, per stringermi e guardarmi negli occhi. Io
feci lo stesso. Come erano passati gli anni! La sua figura conservava
l'imponenza della giovinezza, ma si notava una flessione, un
inarcamento della persona che partiva dalle rughe intorno agli occhi
fino all'andatura lenta e annoiata. I suoi capelli erano di un biondo
spento e il suo abbigliamento era rigoroso ma domestico, scevro dalle
mode del tempo. Per un attimo però, appena ci salutammo, recuperò
il vigore di un tempo.
- Spero che vorrai considerare
questa casa come fosse anche tua, mi disse con grande entusiasmo,
come a convincermi che non si trattava di una mera formalità, ma di
un sincero invito. Parlammo per tutta la mattina, il che mi permise
di recuperare pezzi della sua biografia smarriti dopo tanti anni di
lontananza. Il padrone di casa mi rivelò di vivere come un esiliato
in quella sua grande dimora. Il suo spirito era tormentato, la noia
lo opprimeva e dopo la morte della sua compagna il sonno era cosa
flebile e discontinua. Per questo non era sembrato adeguato al
domestico svegliarlo la sera prima. Scoprì quindi che l'alcool
forniva una buona dose di compagnia al mio vecchio amico, il quale
riusciva ad assumerne in grandi quantità, come i mesi successivi mi
dimostrarono. Nei primi giorni passati assieme sopraggiunse
un'allegria che da tempo entrambi avevamo dimenticato: passavamo il
pomeriggio a cavalcare nella brughiera o, se il tempo non lo
permetteva, a scaldarci al fuoco del grande camino discorrendo di
letteratura e di un passato che riaffiorava dirompente. Quel moto di
passione però presto si affievolì: il vino che per un primo tempo
aveva avuto l'effetto di accalorarci, ora ci lasciava imbambolati e
inerti, cullandoci nella noia che tornava a dominare, dopo
quell'imprevisto squarcio dovuto alla novità della mia presenza.
Come una ferita dopo l'effluvio di sangue, questa si rimarginò per
cicatrizzare, riconducendoci entrambi nel nostro malessere, che ora
era poco meno opprimente solo per il fatto di essere condiviso.
Ripresi a bere fortemente, ma questa volta nell'intento di
ricominciare a scrivere, motivo per cui avevo abbandonato la città.
Non volevo tornare a casa a mani vuote: sarebbe stata la definitiva
rovina, la quale avrebbe potuto avere effetti devastanti sulla mia
psiche.
Quel luogo, nella sua tenebrosa quiete,
mi affascinava, e presto iniziai a passare diverso tempo chiuso nella
mia stanza a lavorare di fantasia, mettendo nero su bianco
impressioni ed idee sparse, fino a cominciare a dare organicità a
quello che si prospettava come un nuovo acclamato romanzo. Scrivevo
molto, e la mia mente era un vortice di pensieri e stimoli. I primi
giorni in quel maniero si svolsero in una condizione di pace che
sembrava trarre origine dal clima nebbioso e incolore del paesaggio
esterno. Questa condizione di anestesia non durò a lungo. Fu una
notte della fine della terza settimana, una notte piovosa e quantomai
gelida, che le cose iniziarono a cambiare. Appena finita la cena,
ebbro di vino e assolutamente annoiato dal clima cupo e grigio, mi
ritirai nella mia stanza dopo essermi congedato dal mio commensale.
Dopo qualche ora passata al calamaio decisi che era ora di coricarmi:
nonostante la pesantezza provocata dal bere, feci una gran fatica a
prendere sonno, rigirandomi tra le coperte in preda ad un'ansia
insopprimibile. Ansia che ben presto si tramutò in qualcosa di più
definito, ma che subito non seppi riconoscere. Cominciai ad osservare
la stanza. Le volte alte e appuntite del soffitto sembravano celare
presenze minacciose, dalle pietre dei muri giungevano sibili e
scricchiolii, le ombre sulle pareti prendevano forme contorte,
esasperate. Ad un certo punto capì: era paura! Fui colto da un
terrore inesplicabile: era giunto all'improvviso senza che niente
avesse contribuito ad accenderlo. Quella paura tornò a tormentarmi
le notti successive, che si concludevano ogni volta con sonni
deliranti e brevi. Ogni mattina mi facevo sempre più simile, in
aspetto e movenze, al padrone di casa: il viso pallido e solcato da
rughe, lo sguardo vacuo, i passi trascinati e una sottile angoscia
che si esprimeva in occhiate incerte e tremolanti. Doveva provare la
mia stessa sensazione, la notte. Quando provai a chiedergli se così
fosse si limitò a scuotere la testa e coprirsi il viso con le mani.
I giorni passavano tra abbondante vino e un'attività sempre più
fervente, solo motivo che mi teneva ancorato a quel palazzo. Ogni
notte però il terrore tornava, stimolato da quella casa che
diventava ogni notte foriera di suggestioni sinistre, rendendosi ora
dopo ora sempre più tenebrosa, man mano che la stagione autunnale si
inoltrava verso l'inverno.
Nonostante tutto c'era una forza che mi
tratteneva, una forza che andava oltre il mio ritrovato estro
artistico: passato un mese ero ancora lì. Erano le due, o forse le
tre, quando durante una di quelle eterne veglie un urlo
raccapricciante lacerò l'aria, rimbombando sui muri freddi. Era un
grido di puro orrore, che mi gelò il sangue, immobilizzandomi invece
di indurmi a correre in cerca della fonte di tanto turbamento. Fuori
il vento soffiava gelido provocando un sibilo costante. Mi costrinsi
infine a mettermi in piedi e uscire dalla stanza. Mi trovai di fronte
alla faccia sconvolta del domestico. Ebbi un sussulto: i suoi
lineamenti già imbruttiti dal tempo erano deformati dal sonno e dal
timore. Facemmo assieme il corridoio diretti verso la stanza del
padrone. Bussammo, ma non giunse nessuna risposta, così entrammo:
all'interno non c'era nessuno. Decidemmo di scendere al piano
inferiore, dove si trovava il salone. Quella notte tutti quei
dettagli aspri che avevo notato al mio arrivo sembravano aumentati di
intensità: sopra il mio capo pendevano come una minaccia i soffitti
ogivali, le ombre generate dal candelabro del domestico proiettavano
macchie terrificanti sui muri. Ebbi un brivido. Una volta giunti nel
salone fummo costretti ad abbandonare la prudenza per correre
incontro al mio amico, che stava per terra, seminudo e tremante.
Quando lo guardai in viso ebbi un fremito: i capelli erano diventati
bianchi e gli occhi erano sbarrati in un'espressione di terrore puro.
Lo riportammo nella stanza in uno stato delirante. Continuava a
biascicare con la voce rotta parole tra cui distinsi “male”,
“demonio”, “Lenora”. Lenora era sua moglie.
Dopo quella notte non si riprese più.
Giaceva a letto dimenandosi, in uno stato di perenne agitazione. Da
quel giorno le cose peggiorarono anche per me. Iniziai a bere sempre
più, e più bevevo più scrivevo. Nello stesso tempo però la casa
si faceva sempre più minacciosa. Ogni singolo anfratto sembrava
celare un pericolo, un presagio oscuro. Mi trovai in una condizione
di paranoia annichilente. Vagavo per i corridoi tremante, in preda ai
deliri dell'alcool e alle suggestioni spettrali derivanti da un
arazzo sventolante, da una forma dietro una tenda, da un'armatura che
urtavo rumorosamente. Avevo perso ogni pace. Nel frattempo però le
pagine del mio romanzo si moltiplicavano, facendomi intuire che
presto sarei potuto partire da quel luogo maledetto. La speranza di
un rientro glorioso era diventato motivo di fiducia ma nello stesso
tempo si mischiava ai miei deliri, facendosi necessità malsana e
spasmodica.
Quella notte, doveva essere già
dicembre, ero riuscito ad addormentarmi senza sforzi, forse perché
il vino che avevo ingoiato con più devozione del solito aveva vinto
ogni mia resistenza. La stessa forza non valse però ad impedirmi un
risveglio brusco, dopo un orrendo incubo. Era lo stesso del mio
arrivo, sentivo ancora le creaturine ripugnanti che mi si
arrampicavano sulle gambe. Sentivo quella presenza cadaverica, il suo
richiamo. Poi udì una voce lontana, un lamento profondo e gutturale.
Il terrore si impossessò di me. Per convincermi di non stare ancora
sognando mi detti un pizzicotto: ero sveglio. Tuttavia sogno e
realtà, in quella coltre di tenebra solcata dall'infuriare della
tempesta al di fuori della mia finestra, si erano come fusi assieme,
facendo sfumare i confini che delimitavano la fine dell'uno e
l'inizio dell'altra. Non so perché ma mi alzai dal letto. Quella
voce prima mi pietrificava e un momento dopo mi ammaliava. Dolce,
perversamente dolce. Percorsi il corridoio immerso in un'oscurità
rotta dai bagliori dei lampi che penetravano dalle vetrate. Ogni
dettaglio era così ingigantito, aumentando il mio estremo disagio.
La voce continuava a penetrarmi nelle ossa, facendosi incredibilmente
suadente. Non mi accorsi di essere arrivato alle scale, perché d'un
tratto mi mancò il terreno sotto i piedi e precipitai rovinosamente
al suolo. Riuscì ad aggrapparmi alla ringhiera, ferendomi la mano
che cominciò a sanguinare. Non potevo comunque tornare indietro,
così mi strinsi l'arto dolorante nella veste e proseguì. Il salone
era deserto, restavano solo le braci a crepitare fievolmente e
proiettare una debole luce rossastra sulle pareti e sui mobili scuri.
Ad un tratto mi sentì sfiorare da qualcosa. Sentì i capelli
rizzarsi, come se mi fosse appena passata accanto la morte. Con la
coda dell'occhio percepì una sagoma veloce. La seguì. Iniziai a
percorrere corridoi di cui prima di allora non avevo nemmeno
immaginato l'esistenza, passai tra porte consunte inoltrandomi nelle
profondità di quella casa che non mi figuravo tanto grande. Mi
trovai così in una sorta di cantina che incombeva su di me con un
soffitto basso e disseminato di ragnatele. Potevo sentire sotto i
miei piedi, di tanto in tanto, lo scricchiolare di qualcosa che
finiva sotto i miei passi, facendomi inorridire dal disgusto. La
voce, per un attimo arrestatasi, d'un tratto ricominciò col suo
lamento. Questa volta era vicinissima, sembrava provenire dal fondo
dello stretto corridoio nel quale mi ero voluto ficcare. Rimaneva
solo una porticina tra me e quella voce. La aprì.
Mi trovai in una stanza stretta e
lunga, forse un tempo utilizzata per tenere il vino al fresco. In
mezzo alla stanza, appena celata da una colonna, una figura
femminile. Era tanto pallida che sembrava emettere una luce lunare,
seppur debolissima. Teneva il capo chino e i capelli corvini le
coprivano il volto. Stava con le mani congiunte, quasi in preghiera.
C'era però qualcosa di sinistro nella sua postura, stranamente
piegata su un fianco in una posizione innaturale. Mi avvicinai a
piccoli passi. Man mano che mi avvicinavo sentivo come un sibilo, un
leggero fischio, che col diminuire della distanza diveniva sempre più
acuto, disorientandomi. Riuscì comunque ad arrivare ad un passo
dalla creatura. Allungai una mano, cercai di toccarla. Fu allora che
il fischio esplose in un grido agghiacciante, e la presenza si voltò
verso di me scoprendo il volto. Lo spettacolo fu orrendo. La pelle
cadeva sulle guance, svelando la carne disfatta, ingrigita. Gli occhi
erano due bulbi che mi fissavano indemoniati e la bocca uno squarcio
fetido che emetteva questo suono raggelante. Feci per voltarmi di
scatto e scappare, ma, sopraffatto dalla paura, inciampai e caddi,
svenendo.
Mi risvegliai nella mia stanza: il
domestico si apprestava a porgermi una tazza di vino, che bevvi
tremante, ritrovando un minimo di lucidità. Subito però mi tornò
alla mente l'esperienza terribile di poco prima e fui colto da un
singhiozzo così disperato che per un attimo il domestico stesso
trasalì, colto anche lui dall'orrore. Come mi disse mi aveva trovato
nelle cantine privo di sensi dopo aver udito un urlo agghiacciante,
forse più di quello sentito la notte in cui il padrone aveva perso
la salute. Dopo essersi accertato della mia ripresa mi abbandonò.
Gli dissi che sarei partito il giorno dopo, il più in fretta
possibile.
Fui di parola. Appena sveglio accumulai
tutte le mie cose, compreso il voluminoso insieme di fogli che avevo
riempito di parole durante quel mio soggiorno, e partì verso la
città. Non prima di aver salutato il mio amico. Si era ripreso
appena, senza però riuscire a trovare le forze per scendere dal suo
giaciglio. Ci scambiammo un saluto commosso, promettendoci un nuovo
incontro. Poco prima del commiato definitivo, in un improvviso moto
d'angoscia, mi prese la testa e mi avvicinò a sé.
- L'hai vista anche tu. Io lo so che
l'hai vista. Ed è stato terribile, vero? Ma tu l'hai vista, la mia
Lenora, era così bella... Ed ora...
Non ritenni il caso di rispondere e mi
affrettai ad abbandonare quel luogo, turbato e disorientato. Fui in
città a notte inoltrata. Rientrato a casa dormì a lungo.
Mi svegliai che era mezzogiorno. Le mie
cose erano sparse sul pavimento ed io ero ancora vestito. Rimaneva in
me un senso di spaesamento che considerai legato alla fatica e allo
spavento. Dovevo bere un goccio, così rovistai negli armadi per un
po' d'alcol. Ne trovai, mi fece sentire meglio. Dopo essermi dato una
lavata misi i vestiti buoni, quelli delle grandi occasioni, e uscì
di casa con il mio romanzo. La città non mi era mai sembrata così
estranea, ma non me ne curai e tirai dritto verso il mio editore, che
avrebbe sicuramente smorzato il senso di disagio che continuavo a
provare. Mi dovetti fermare in un caffè perché la voglia di bere si
era fatta dirompente. Ne uscì mezzo ubriaco. Le persone attorno mi
deridevano, non credevano che il grande letterato fosse tornato in
pista, lo sentivo, lo leggevo sui volti. Ero sconvolto. Arrivai
dall'editore che mi accolse calorosamente.
- Dio mio come vi siete fatto magro.
E come siete pallido! Sicuro di sentirvi bene? Dal suo viso
percepivo un sincero stupore, oltre che una nota di preoccupazione
per il mio aspetto, che doveva essere terribile. Lo rassicurai sul mio
ottimo stato di salute e gli porsi il manoscritto. Il suo viso si
illuminò. Mi congedò e mi promise di cominciare a vagliare il
contenuto immediatamente.
Uscì da quell'ufficio raggiante e mi
convinsi a fare un salto al caffè letterario, per annunciare la
notizia ai miei ammiratori. Appena uscito in strada, però, mi sentì
chiamare. L'editore aveva il viso paonazzo e agitava il faldone
rabbioso.
- Chi vorreste prendere in giro? È
inaudito, una cosa così non mi era mai capitata!
Mi porse il mucchio di carta e mi invitò a
sfogliarlo. Fu con estremo stupore che mi accorsi di una cosa tremenda, per la
prima volta: tutte le pagine del romanzo erano immacolate. Erano
bianche! Mai una parola era stata impressa su quei fogli rimasti vergini.
Impallidì, per un attimo fui sovrastato da un senso di nausea. Dovetti
appoggiarmi al muro. Ero diventato pazzo, mi ero immaginato
un'attività strabordante che altro non era che una fantasia
ossessiva. Quella casa mi aveva fatto perdere la ragione. Appena questo pensiero mi sfiorò, non so perché, ma iniziai a ridere.
- Ridete! Vi prendete gioco di me! Non
provate più a farvi rivedere, mai più, fallito! Ubriacone!
L'editore mi sbraitava addosso la sua rabbia con cattiveria e io ridevo, fino a che
la mia risata non si fece oltremodo fragorosa, costringendomi ad
accasciarmi a terra. Mi dimenticai di quell'ometto rancoroso che mi
insultava, mi dimenticai chi ero, perché ero lì, che ruolo avevo in
quella città. Mi ricomposi, sempre ghignando. Guardai l'editore con
uno sguardo che lo fece tacere immediatamente. Poi scoppiai in
un'altra risata. Mi voltai e mi misi a camminare.
Entrai nel primo bar che trovai. Ci
entrai in preda ad un delirio inarrestabile, ad un completo
straniamento.
Ci entrai per non uscirne, mai più.
Matteo Castello
Matteo Castello
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