Johnas si guardò attorno ma i suoi occhi non
riuscirono a distinguere nessuna forma nell’oscurità più profonda.
<Cosa dovrei vedere?>
<Aspetta, non ancora>
Uno sfregolio, qualche scintilla e il bagliore di una
debole fiamma illuminò lo scantinato. La luce lentamente invase le pareti e scoprì
una moltitudine di oggetti coperti da teli logori e vecchie coperte. La stanza
era più grande di quanto Johnas si sarebbe mai immaginato: sembrava svanire in
quell’ammasso di forme scomposte che si perdevano a vista d’occhio. Ce n’erano
di ogni dimensione, grandi come pianoforti armadi, comodini, sedie, divani.
Erano un’infinità ma Johnas non riuscì a trovarne nemmeno uno che non fosse
nascosto sotto un qualche telo. Le forme erano facilmente intuibili e nel
loro insieme costituivano un grottesco ammasso di cubi e parallelepipedi.
<Wow, ma è… enorme!>
<Già. Non ci vengo spesso ma ogni volta mi sembra
che ci sia più roba>.
Johnas non riuscì a trattenersi. <Cosa ci fa qui
tutta questa roba? Perché è tutto coperto?>
<Non hai ancora capito?>
<Capito cosa?>
Non c’era niente da capire. Erano nello scantinato di
una casa che, fino a poco prima, credeva fosse abbandonata. Loro due, soli.
<Intendi…> lei lo fermò posandogli un dito sulle
labbra.
<Aspetta, forse hai ragione, è meglio se lo scopri da solo. Dai un’occhiata in giro, se ancora non capisci, te lo dirò. Io intanto ti aspetto sopra.>
<Ma cosa devo cercare?
Posso scoprire i mobili?>
<Fai quello che vuoi, io ti aspetto di sopra>
gli rispose lei sorridendo. Si girò e salì le scale fino a scomparire
nell’unico alone di luce che filtrava dal soffitto. Johnas la sentì muovere
qualche passo di sopra a poi le molle del divano cigolarono ritmicamente per
qualche istante. Adesso era solo. All’inizio aveva pensato di seguirla ma si
ritrovò immobile nella semioscurità senza aver mosso passo. Ormai non poteva
più tirarsi indietro. Avrebbe potuto rimanere qualche minuto fermo per poi
spiegarle che non aveva trovato nulla e chiederle spiegazione ma non ne valeva
la pena.
Mosse i primi passi nella penombra sollevando qualche
sbuffo di polvere che diventò una nube appena scostò il telo che copriva primo
mobile. Doveva essere un armadietto dalla forma ma la polvere lo accecava e
solo dopo qualche istante si rese conto che invece si trattava di un semplice
cubo. Nessuna decorazione, nessuno scaffale, nessun ornamento, soltanto un
grosso e liscio cubo di metallo. Johnas lo toccò affascinato, ci girò attorno
alla ricerca di una rientranza, un’apertura, una maniglia, un buco, qualsiasi
imperfezione ma niente, quel cubo di metallo era solo e soltanto un cubo di
metallo.
Incuriosito si avvicinò ad un altro oggetto nascosto e
tirò via il telo che lo copriva. Dalla forma sembrava un letto ma, appena
rimosso il telo, Johnas si trovò di fronte ad un enorme parallelepipedo di
legno. Levigato, perfetto, liscissimo e nuovamente senza alcuna apertura né
foro. Giaceva vuoto, senza alcun significato e Johnas si scoprì impaurito di
fronte quella rivelazione. Si gettò su di un altro telo e la scoperta di un
altro cubo di legno nero non lo sorprese ma un ansia inspiegabile lo spronò a
correre e scoprire un altro oggetto. Uno dopo l’altro, Johnas corse da una
forma all’altra rivelando piramidi di vetro, sfere d’avorio, prismi di pietra e
mentre i teli cadevano a terra, il cuore pompava sangue all’impazzata. Si guardò
alle spalle e non vide altro che forme nude, inquietanti nella loro vuota perfezione. Cercò
l’uscita con lo sguardo ma l’unica luce proveniva ormai dalle fessure tra le
travi del soffitto. L’aria era satura di polvere che la luce tagliava e
illuminava a formare una rete di luce tutt’intorno a Johnas. Girò su se stesso
stupito e, non vedendo altro che un’infinità di polverosi raggi di luce attorno
a lui, venne preso dal panico e si mise a correre nella direzione opposta a
quella da cui credeva di esser venuto.
Non fece in tempo a fare più di una decina di passi che
il rombo di un tuono lo bloccò. Era una risata. Potente, devastante, perversa e
imponente. Proveniva da ogni oggetto, dal soffitto, dalla polvere, dalla luce.
Era ovunque.
AHAHAHAH
Johnas era paralizzato. Non riusciva a muovere un
muscolo. Quel riso cupo gli penetrava la carne fino a fargli fremere le ossa.
Di colpo, come era cominciata, la risata cessò e Johnas
riprese a correre. Correva per la salvezza, correva verso la luce. I suoi passi
sollevavano nuvoloni di polvere alle sue spalle mentre zagzagava tra sfere,
cubi e piramidi di gesso. Inciampò in un cilindro di latta, cadde, si sollevò e
riprese a correre.
ADESSO
La parola lo colpì al fianco come una mazzata. Sbandò,
inciampò, mosse qualche passo a quattro zampe e ricominciò a correre. L’onda
d’urto era stata tremenda ma non si fermò a pensarci. Voleva solo uscire.
Tornare alla luce, sfuggire a quell’incubo.
HAI
Un altro colpo, questa volta da sinistra, gli fece
nuovamente perdere l’equilibrio ma non riuscì a fermarlo. Questa volta era
preparato. Urtò un'altra forma, appuntita, una piramide forse. Un lampo di
dolore alla coscia ma non lo sentì nemmeno. Un fiume vermiglio gli inondò la
gamba senza che se ne accorgesse. Ormai riusciva a distinguere le scale di
legno a qualche decina di metri. La salvezza.
CAPITO?
Quest’ultima botta fu infinitamente più forte delle
precedenti. Lo colpì su tutto il corpo, gli tolse il respiro e lo immobilizzò.
La scaletta era ormai a pochi metri. La stava già percorrendo con lo sguardo ma
il corpo rimase fermo sul posto, paralizzato da quelle oscure parole. Johnas
urlò ma non gli uscì altro di gola che un fischio strozzato. L’ultimo grido
soffocato della preda morente.
Era un no.
ALLORA VEDRAI
E con queste parole, Johnas non vide più niente.
La prima cosa che riuscì a percepire fu la gola
libera. La seconda, fu il sapore del sangue. Poi, lentamente, un bagliore
accecante e urla indistinte provenienti da ogni direzione. Provò a muoversi ma
scoprì di essere legato. Sentiva corde rodergli i polsi legati stretti dietro
quello che sembrava essere un tronco. Era legato ad un palo, lo sentì ruvido
dietro la schiena e la nuca prima ancora di percepirlo con la coda dell’occhio.
In mezzo ad un patibolo, una folla gremita lo circondava. Fece per mettere a
fuoco i volti ma non ci riuscì. Erano sfocati e distanti come le grida che gli
giungevano alle orecchie. Fece per concentrarsi ma improvvisamente il volto
rugoso di un vecchio gli si parò davanti.
<Chi sei?>
<Johnas> biascicò.
<No! Ti ho chiesto chi sei veramente>
<Johnas> ripeté automaticamente.
<Non mentire! Potrebbero essere le tue ultime
parole, non sprecarle mentendo> gridò il vecchio colpendolo con il dorso
della mano. Ancora una volta il dolce sapore del sangue inondò la bocca di
Johnas. Provò a sputarlo per terra ma non gli rimanevano abbastanza forze. Ne
uscì un conato vermiglio a strozzare un grido di agonia.
<Io mi chiamo…>
<Zitto> lo interruppe nuovamente il vecchio.
<Guarda loro> disse indicando la folla sotto il patibolo. <Guardali,
non li riconosci?>
Johnas si concentrò sui volti e sulle urla che lo
circondavano. Riusciva a sentirli e a vederli ma le loro facce gli erano
ignote, come coperte da una sottile foschia e le loro urla erano vuote, come
parole gridate al vento. Cariche di rabbia e di odio.
<No! Non so chi siano>
<Ascolta le loro grida!> urlò ancora il vecchio.
La voce piena di risentimento e le nocche pronte a colpirgli la mascella. Una,
due volte. Questa volta Johnas non sputò solo sangue ma sentì brandelli di
carne scivolargli tra le labbra. Le sue labbra. La sua carne.
<Non le sento>
<ASCOLTALI!>
La voce del vecchio si era fatta imperiosa e ruggente
tutto d’un tratto. Non era più la sua voce, era il ringhio sordo che Johnas
aveva sentito nello scantinato. Era la voce del potere che lo aveva soggiogato
e che lo teneva ancora stretto nella sua morsa, legato ad un palo.
<GUARDALI!>
Sotto la pressione di quel tuono Johnas voltò la testa
e, per la prima volta, riuscì a scorgere i volti tra la folla. Tutti i volti.
Ogni singola persona. E quello che vide lo lasciò sconvolto. Girò la testa
dall’altro lato ma non ci riuscì: c’era solo il freddo legno del palo dietro di
se. Cercò di urlare ma era nuovamente muto. Tentò di divincolarsi ma era legato
bene e ad ogni movimento i lacci gli rodevano i polsi stridendo contro la carne
che si lacerava impotente in quel frenetico terrore. Dalla bocca di Johnas si
levò un sordo ululato quando si rese conto di cosa stava per succedere. Non era possibile. Tutti loro, tutti assieme.
<Sono venuti a prenderti, Johnas, sono qua per
te>
Nella sua testa, il ragazzo cominciò a pregare un Dio
che non aveva mai rispettato mentre le prime braccia cominciavano a scalare il
patibolo.
I primi a salire si raggrupparono ai bordi. Guardavano
Johnas immobile, aspettando che arrivassero anche gli altri. Sarebbe stato un
banchetto grandioso. Finalmente il ragazzo avrebbe pagato. Con la sua carne e
con i suoi sogni.
Avanzarono compatti, uniti, da ogni direzione.
Un sussurro giunse all’orecchio di Johnas.
<Hey, cosa credevi, che saresti riuscito a tenerli
nascosti per sempre?>
Era la voce del vecchio. Gli parlava da dietro, le sue
labbra così vicine all’orecchio che riusciva a sentirgli il fiato soffiargli
nei padiglioni. Appena un sussurro ma così vicino da sembrare un urlo.
<Non puoi più sfuggirgli ormai. Non puoi sfuggire
alle tue paure, alle tue passioni, alle tue perversioni, alle tue follie, ai
tuoi desideri. Cosa credevi? Pensavi che sarebbero bastati candidi simulacri di
legno, avorio o acciaio a placarli per sempre? Credevi che sarebbe bastato
nasconderli sotto maschere di perfezione per impedirgli di venirti a prenderti?
Le tue bare di vetro non sono nulla contro la loro furia, adesso non puoi più
smettere di vedere>
Gli occhi che Johnas aveva cercato ti tenere serrati
fino a quel momento, si spalancarono ed egli vide. Li vide avvicinarsi
lentamente, li vide ridere. E quando il primo tra loro gli scoprì i denti neri
a pochi centimetri dagli occhi, Johnas non poté non vedere. Vide quando le
mascelle si spalancarono ingorde e vide quando si serrarono sul suo naso. Le vide affamate lacerargli le narici e sradicargli, uno strattone dopo l’altro, l’intero setto
nasale. Né la nausea né il dolore gli permisero di non vedere. Vide quelle
avide fauci sfiorargli le labbra, quasi come un bacio voglioso e poi le vide,
con orrore, serrarsi, tirare, serrarsi ancora e divorargli un labbro e poi
l’altro. Vide i loro morsi sulla sua carne e solo quando cominciarono ad
aggredirgli gli occhi, capì che non avrebbe più visto.
E si svegliò…
<Sarebbe stato meglio guardare in faccia la
vita…>
Johnas quel mattino si svegliò ceco e nessuno mai capì
il perché.
<…che fissare il vuoto>
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