Non temo la gente, parte 3


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Il giorno dopo era stato tutto un fremito di collettivi, di fazioni e sotto-fazioni: bisognava imporre una linea il giorno venturo. Ma prima bisognava deciderla in casa propria, la linea. Ogni riunione preparativa era a sua volta un'assemblea sfiancante. In quella del mio gruppo, dopo ore ed ore di discussione, ripensamenti, litigi e compromessi di buon senso dell'ultimo minuto, si era arrivati ad una buona sintesi. Era stimolante mettersi alla prova in quella gara di idee, dove i vincitori venivano fuori solo dopo diverse scremature, grazie al contributo di tutti. Certo, c'erano i leaders, perlopiù gente in gamba con più esperienza e sale in zucca di noialtri, ma rivestivano un ruolo pedagogico (ovviamente non dichiarato) più che carismatico. A loro comunque veniva affidata la rappresentanza nelle grandi occasioni, segno di come la democrazia partecipativa era una buona cosa fino a che parlare in pubblico non iniziava a diventare una faccenda troppo grossa. Appena spuntava una telecamera o un ruolo di responsabilità ecco che si optava senza troppa vergogna per il vecchio e sano principio gerarchico.
 Il giorno dell'assemblea l'aria era piena di elettricità. L'aula di cui ci si era impossessati senza troppi formalismi strabordava di animaletti universitari di ogni specie. C'erano i gruppi organizzati, quelli disorganizzati per ideologia o quelli che semplicemente erano incurabilmente ingenui. C'erano i punkabbestia del “famolo strano”, c'erano gli avventurieri con la voglia irrefrenabile di una bella carica della polizia per facilitare la digestione, c'erano gli ideologi di un eterno ritorno fatto di “repressionedellostatodeipadronichestimolasolidarietàdiclasse”, c'erano i pacifisti che pensavano di risolvere tutto con le buone intenzioni e le mani alzate, c'era un po' di gente seria che prima o poi sarebbe finita in qualche partito o cooperativa sociale ma soprattutto tanti studenti intrigati e affascinati da quel periodo di protagonismo e di cambiamento. In un'occasione come quella se ti trovavi in mezzo alla fila potevi scordarti di andare a pisciare per almeno tre ore. L'atmosfera era frizzante, nonostante la leggera tensione: eravamo capaci di bloccare la città per un giorno intero, forse due, o di occupare ad oltranza l'università se solo lo avessimo deciso in quell'assemblea. Un paio di camionette dei carabinieri erano pronte fuori dai cancelli, perché non si sa mai.
Io ero stato impegnato fin dalla prima mattina nell'organizzazione dell'evento, aiutando i compagni del collettivo a reperire microfoni, megafoni, striscioni, fogli per la raccolta firme ed ogni cosa potesse essere necessaria. Poco prima dell'inizio mi sono messo all'estremità delle primissime file, lasciando un posto per R. Non era ancora arrivato e la cosa mi preoccupava. “Vuoi vedere che si tira indietro? Come prevedibile...”.
L'assemblea era cominciata da poco e le mie speranze erano quasi del tutto annichilite quando R. è entrato nell'aula. Elegante, ordinato, si è sfilato i guanti neri e mi ha cercato con lo sguardo. Gli ho fatto segno e mi ha raggiunto, sedendosi accanto a me. Era del tutto fuori luogo in quel brulicare di piercing, rasta, capelli lunghi, magliette colorate e maglioni sfibrati e deformati. Il tizio che parlava al microfono stava spiegando l'importanza di continuare la lotta, perché “o adesso o mai più, questa è la nostra occasione per essere protagonisti di un futuro fatto di istruzione libera, critica, per il cambiamento e non per lo status quo. Per questo l'università deve essere per tutti, non solo per i padroni!”. Giù applausi. L'idea era quella di dare la parola ai rappresentanti dei diversi gruppi per esporre le varie prese di posizione e poi far partire il dibattito. Idea subito contrastata da un tizio che “non mi rappresenta un cazzo di nessuno, rappresento solo me stesso. Sono uno studente incazzato come tanti, 'sta cosa di far parlare solo alcuni fa schifo”. Le cose si complicavano un po', perché lo spontaneismo rischiava di generare soltanto casino. Ad ogni modo i rappresentanti hanno fatto in tempo a tramutarsi in un attimo in “liberi studenti” e a prenotarsi per primi per gli interventi.
Le opinioni correvano una dopo l'altra, molte cadevano nel vuoto, altre andavano a rafforzare punti di vista sempre più definiti e monolitici. In sostanza la questione era: linea dura o linea un po' meno dura. Io stavo nel mezzo, come si era deciso tutti quanti il giorno prima, e quando è venuto il momento del mio intervento ne ho approfittato per ribadire come “la lotta non è una questione di pancia, ma di cervello. Se vogliamo vincere dobbiamo essere capaci di capire quando mediare, quando abbassare i toni oppure quando fare un casino della madonna. Ora iniziamo soprattutto a sensibilizzare e preparare una grande giornata di piazza. Poi se non basta occupiamo, ma di certo non oggi”. Gli applausi dividevano la grande aula in due parti contrapposte. Qualche fischio proveniva da chi voleva mettere i catenacci all'ingresso la sera stessa. Nel corso delle successive due ore R. era apparso concentrato e sembrava attratto dall'assemblea. La sua attrazione però si manifestava non attraverso applausi e parole di assenso, ma con sbuffi e occhi levati al cielo. Il tizio che moderava gli interventi era uno di quelli che alla gente come R. non l'avrebbe fatta nemmeno entrare. Mi aveva lanciato, a quel proposito, un'occhiataccia appena mi aveva visto lasciare il posto a R. salutandolo amichevolmente. L'occasione ora era propizia per tentare di sputtanarlo. Non che non l'avessi previsto, ma solo ora mi rendevo conto del danno che ciò avrebbe potuto provocare.
- Forza, cerchiamo di trovare una linea comune. Chi non si è ancora espresso cosa pensa? La gente nuova vinca la timidezza. Tu ad esempio, vieni qui, dai.
Inutile dire che si rivolgeva ad R.
- Chi io?
- Si dai, vieni, non avere paura mica ti mangiamo.
Qualche risata di scherno. R. è leggermente arrossito e si è diretto controvoglia alla cattedra. Ha preso il microfono, mi ha guardato e, dopo un attimo di attesa, ha detto: - fate quello che volete, la cosa non mi riguarda, non sarò comunque dei vostri.
Aveva iniziato tremendamente male, inutile dirlo. L'aula ha sobbalzato come fosse un'unica creatura. “Cazzo dice questo?”. Le file dei buzzurri erano già eccitate dalla possibilità di una caccia al traditore in diretta. Il moderatore ha interrotto il ritorno di R. al suo posto.
- No no, adesso mi spieghi perché non sarai dei nostri. Che è, ti piace che l'università vada a puttane? Ti piace che l'università la possano fare solo i fighetti come te?
- Non è questo il punto. È che non credo che si arriverà a molto con questi metodi. Siete divisi, siete deboli e fuori non vedono l'ora di farvi sfogare per bastonarvi per bene e chiudere la faccenda con qualche servizio terroristico al tg della sera.
- Questo è il pensiero dei borghesucci che le cose le guardano dalla tivvù!, ha gridato una ragazza dalle ultime file, tra un vociferare generalizzato.
- No, questo è il pensiero di chi sa essere realista. La trasformazione in corso dell'apparato universitario è un fatto ineluttabile, che voi lo vogliate o meno...
- Zitto! Ha urlato qualcuno dagli spalti, ricevendo poche occhiatacce e tanti commenti di approvazione, insieme a qualche “buttatelo fuori!”.
- … perché dipende dalla trasformazione ancora più ineluttabile dei rapporti sociali in occidente e dal ruolo degradato che questo paese ricopre nella catena internazionale del valore. Non ci sono posti per lavoratori specializzati, non potete pretenderli e basta facendo finta di niente...
- Sembra di sentire parlare un banchiere. Qui ci sono studenti che non vogliono farsi rubare il futuro dalle mani. Quale sarebbe la tua alternativa, non fare un cazzo di niente?
Incitati dall'energumeno -uno di quelli della linea dura che aveva tutta l'intenzione di sfruttare ogni occasione per dar via all'occupazione- che aveva fatto l'intervento, tutti si sono messi a scandire lo slogan “Fuori i banchieri dall'università! Fuori i banchieri dall'università!”. Slogan, appunto. Non c'era ragione valida in quell'occasione: nessuno aveva intenzione di stare con le mani in mano. Occupazione o no l'anno accademico doveva essere caldo. La decisione che si sarebbe presa sarebbe stata comunque a senso unico.
- Inutile, non serve discutere con voi, - R. era nervoso, le mani gli tremavano e il suo tono di voce iniziava a scomporsi in piccoli sbalzi nevrotici, -la verità è che avete solo voglia di fare rumore, di farvi sentire.
La gente iniziava a rumoreggiare non poco, quelli delle prime file erano in piedi e alcuni si stavano dirigendo verso di lui con fare tutt'altro che conciliante. Stavano dando torto a R., che forse per la prima volta si trovava in una situazione come quella. Non poteva far leva sui suoi trucchi, sul suo esprimersi a metà, sul suo amichevole e conciliante opportunismo. Aveva scelto di comportarsi in un'altra maniera e ne stava pagando le conseguenze. Era nudo nel suo dissenso per quell'insieme scomposto di banalità e dogmatismi. Tenendo il microfono ben stretto ha continuato nella sua filippica: - E allora forza, portate la vostra sfilata di moda alternativa fuori da qui, fate una bella manifestazione, fatevi caricare, così dormite meglio. Siete dei viziati e sapete di esserlo. Volete solo concedervi un po' di svago prima di occupare i vostri posti garantiti da classe dirigente!
A questo punto il moderatore gli ha strappato via il microfono mentre l'aula veniva sommersa dai fischi e un folto gruppo si avventava su di lui. Dopo i primi spintoni mi sono lanciato in soccorso di R., che veniva irrimediabilmente trascinato verso l'uscio. Quando sono riuscito a raggiungerlo era già fuori. Mi sono messo tra lui e gli studenti inferociti e ho cercato di attirare la sua attenzione. L'ho chiamato, lui si è girato. Era furioso, sudato, la sua espressione era lontanissima da quella che avevo imparato a conoscere e che costituiva la sua chiave per il suo successo con gli altri. Mi si è avvicinato, mi ha guardato per un attimo che mi è sembrato un'eternità e mi ha detto: - Vai al diavolo, non provare a farti più vedere. Poi si è diretto veloce verso l'uscita, e un uovo lanciato da qualcuno dietro di me l'ha colpito sulla spallina del trench. Facendo finta di nulla è scomparso dalla nostra vista.

L'assemblea è finita poco tempo dopo: l'avversione suscitata nei confronti del controrivoluzionario R. aveva fatto vincere la linea dura. Inutile dire che il giorno dopo l'università era già stata sgomberata e il movimento disperso. Dopo qualche manifestazione contro la violenza poliziesca e contro l'università dei padroni la partecipazione è iniziata a scemare e la foga di quella stagione di lotta è rientrata negli argini. Di R. non se ne è più saputo nulla. A lezione sedeva nelle ultime file e non mi rivolgeva più nemmeno uno sguardo. Dopo pochi mesi ha lasciato l'università.
Mi sentivo terribilmente in colpa per quello che era successo. Non era mia intenzione, non pensavo che le cose sarebbero andate così. Lui aveva esagerato, si era posto nel modo sbagliato. Solo dopo un po' ho capito che forse l'aveva fatto per non deludermi. In fondo poteva limitarsi a rimanere vago e a dire qualche cosa tipo “bisogna fare i giri nelle aule per informare gli studenti”. Sarebbe rientrato nel suo stile, no? Sarebbero stati tutti contenti e lui non si sarebbe sputtanato. Invece no, aveva fatto valere la sua idea, la sua ragione, la sua lucidità mentale. Si era esposto, ma l'aveva fatto nel luogo sbagliato, nonostante la maggior parte dei presenti in quell'aula fosse in buona fede.
Non l'ho più rivisto e nessuno è mai riuscito a dirmi che fine avesse fatto. Forse era andato all'estero, forse aveva “cambiato aria” pure lui. Magari qualcosa si era mosso dentro la sua testa dopo l'esperienza di quell'assemblea. Rimaneva da capire se ne fosse valsa la pena.
Solo diversi anni dopo ho saputo che si era messo a lavorare di brutto perché l'università non poteva più permettersela. Lui, quel fighetto figlio di papà cacciato da un'assemblea che voleva regalare a tutti l'istruzione, era stato escluso da quel sistema di “selezione della classe dirigente”. Classe dirigente di cui non faceva parte e di cui non avrebbe mai ingrossato le fila. Ora capivo molte cose: perché fosse rimasto nella sua città a studiare, perché nutrisse tanto cinismo verso un'istituzione dalla quale si sentiva escluso in partenza e perché fosse così diffidente nei confronti di quelle lotte intrise di borghesia e idealismo poco pratico. La verità è che lui voleva solo stare tranquillo, socializzare, non scontentare nessuno: evidentemente di problemi ne aveva già tanti senza doverseli andare a creare ad arte. La sua battaglia per un futuro migliore la faceva nella vita. I rapporti sociali erano il suo balsamo, la sua chiave di accesso ad una vita da non-escluso. Le persone -nella loro diversità- erano quello che c'era di bello nella sua vita. Peccato che è impossibile andare bene a tutti e che presto o tardi ognuno -chi più chi meno- viene rimesso al suo posto. Lui l'aveva capito quel giorno. 
Ancora oggi però, a tanti anni di distanza, non riesco a non pensare che forse quella sua tattica poteva anche durare: se solo -quella volta- avesse mascherato un pochino il suo "nocciolo" di personalità, se solo avesse mentito, se solo non avesse voluto dimostrarmi di essere una persona completa, per niente camaleontica, migliore di me...

Matteo Castello
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