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Parte 2: qui
Il giorno dopo era
stato tutto un fremito di collettivi, di fazioni e sotto-fazioni:
bisognava imporre una linea il giorno venturo. Ma prima bisognava
deciderla in casa propria, la linea. Ogni riunione preparativa era a
sua volta un'assemblea sfiancante. In quella del mio gruppo, dopo ore
ed ore di discussione, ripensamenti, litigi e compromessi di buon
senso dell'ultimo minuto, si era arrivati ad una buona sintesi. Era
stimolante mettersi alla prova in quella gara di idee, dove i
vincitori venivano fuori solo dopo diverse scremature, grazie al
contributo di tutti. Certo, c'erano i leaders, perlopiù gente in
gamba con più esperienza e sale in zucca di noialtri, ma rivestivano
un ruolo pedagogico (ovviamente non dichiarato) più che carismatico.
A loro comunque veniva affidata la rappresentanza nelle grandi
occasioni, segno di come la democrazia partecipativa era una buona
cosa fino a che parlare in pubblico non iniziava a diventare una
faccenda troppo grossa. Appena spuntava una telecamera o un ruolo di
responsabilità ecco che si optava senza troppa vergogna per il
vecchio e sano principio gerarchico.
Io ero stato
impegnato fin dalla prima mattina nell'organizzazione dell'evento,
aiutando i compagni del collettivo a reperire microfoni, megafoni,
striscioni, fogli per la raccolta firme ed ogni cosa potesse essere
necessaria. Poco prima dell'inizio mi sono messo all'estremità delle
primissime file, lasciando un posto per R. Non era ancora arrivato e
la cosa mi preoccupava. “Vuoi vedere che si tira indietro? Come
prevedibile...”.
L'assemblea era
cominciata da poco e le mie speranze erano quasi del tutto
annichilite quando R. è entrato nell'aula. Elegante, ordinato, si è
sfilato i guanti neri e mi ha cercato con lo sguardo. Gli ho fatto
segno e mi ha raggiunto, sedendosi accanto a me. Era del tutto fuori
luogo in quel brulicare di piercing, rasta, capelli lunghi, magliette
colorate e maglioni sfibrati e deformati. Il tizio che parlava al
microfono stava spiegando l'importanza di continuare la lotta, perché
“o adesso o mai più, questa è la nostra occasione per essere
protagonisti di un futuro fatto di istruzione libera, critica, per il
cambiamento e non per lo status quo. Per questo l'università deve
essere per tutti, non solo per i padroni!”. Giù applausi.
L'idea era quella di dare la parola ai rappresentanti dei diversi gruppi
per esporre le varie prese di posizione e poi far partire il
dibattito. Idea subito contrastata da un tizio che “non mi
rappresenta un cazzo di nessuno, rappresento solo me stesso. Sono uno
studente incazzato come tanti, 'sta cosa di far parlare solo alcuni
fa schifo”. Le cose si complicavano un po', perché lo
spontaneismo rischiava di generare soltanto casino. Ad ogni modo i
rappresentanti hanno fatto in tempo a tramutarsi in un attimo in
“liberi studenti” e a prenotarsi per primi per gli interventi.
Le opinioni
correvano una dopo l'altra, molte cadevano nel vuoto, altre andavano
a rafforzare punti di vista sempre più definiti e monolitici. In
sostanza la questione era: linea dura o linea un po' meno dura. Io
stavo nel mezzo, come si era deciso tutti quanti il giorno prima, e
quando è venuto il momento del mio intervento ne ho approfittato per
ribadire come “la lotta non è una questione di pancia, ma di
cervello. Se vogliamo vincere dobbiamo essere capaci di capire quando
mediare, quando abbassare i toni oppure quando fare un casino della
madonna. Ora iniziamo soprattutto a sensibilizzare e preparare una
grande giornata di piazza. Poi se non basta occupiamo, ma di certo
non oggi”. Gli applausi dividevano la grande aula in due parti
contrapposte. Qualche fischio proveniva da chi voleva mettere i
catenacci all'ingresso la sera stessa. Nel corso delle successive due
ore R. era apparso concentrato e sembrava attratto dall'assemblea. La
sua attrazione però si manifestava non attraverso applausi e parole
di assenso, ma con sbuffi e occhi levati al cielo. Il tizio che
moderava gli interventi era uno di quelli che alla gente come R. non
l'avrebbe fatta nemmeno entrare. Mi aveva lanciato, a quel proposito,
un'occhiataccia appena mi aveva visto lasciare il posto a R.
salutandolo amichevolmente. L'occasione ora era propizia per tentare
di sputtanarlo. Non che non l'avessi previsto, ma solo ora mi rendevo
conto del danno che ciò avrebbe potuto provocare.
- Forza,
cerchiamo di trovare una linea comune. Chi non si è ancora espresso
cosa pensa? La gente nuova vinca la timidezza. Tu ad esempio, vieni
qui, dai.
Inutile dire che si
rivolgeva ad R.
- Chi io?
- Si dai, vieni,
non avere paura mica ti mangiamo.
Qualche risata di
scherno. R. è leggermente arrossito e si è diretto controvoglia
alla cattedra. Ha preso il microfono, mi ha guardato e, dopo un attimo di attesa, ha
detto: - fate quello che volete, la cosa non mi riguarda, non sarò
comunque dei vostri.
Aveva iniziato
tremendamente male, inutile dirlo. L'aula ha sobbalzato come fosse
un'unica creatura. “Cazzo dice questo?”. Le file dei
buzzurri erano già eccitate dalla possibilità di una caccia al
traditore in diretta. Il moderatore ha interrotto il ritorno di R. al
suo posto.
- No no, adesso
mi spieghi perché non sarai dei nostri. Che è, ti piace che
l'università vada a puttane? Ti piace che l'università la possano
fare solo i fighetti come te?
- Non è questo
il punto. È che non credo che si arriverà a molto con questi
metodi. Siete divisi, siete deboli e fuori non vedono l'ora di farvi
sfogare per bastonarvi per bene e chiudere la faccenda con qualche
servizio terroristico al tg della sera.
- Questo è il
pensiero dei borghesucci che le cose le guardano dalla tivvù!,
ha gridato una ragazza dalle ultime file, tra un vociferare
generalizzato.
- No, questo è
il pensiero di chi sa essere realista. La trasformazione in corso
dell'apparato universitario è un fatto ineluttabile, che voi lo
vogliate o meno...
- Zitto! Ha
urlato qualcuno dagli spalti, ricevendo poche occhiatacce e tanti
commenti di approvazione, insieme a qualche “buttatelo fuori!”.
- … perché dipende dalla
trasformazione ancora più ineluttabile dei rapporti sociali in
occidente e dal ruolo degradato che questo paese ricopre nella catena
internazionale del valore. Non ci sono posti per lavoratori
specializzati, non potete pretenderli e basta facendo finta di
niente...
- Sembra di
sentire parlare un banchiere. Qui ci sono studenti che non vogliono
farsi rubare il futuro dalle mani. Quale sarebbe la tua alternativa,
non fare un cazzo di niente?
Incitati
dall'energumeno -uno di quelli della linea dura che aveva tutta
l'intenzione di sfruttare ogni occasione per dar via all'occupazione-
che aveva fatto l'intervento, tutti si sono messi a scandire lo
slogan “Fuori i banchieri dall'università! Fuori i banchieri
dall'università!”. Slogan, appunto. Non c'era ragione valida in
quell'occasione: nessuno aveva intenzione di stare con le mani in
mano. Occupazione o no l'anno accademico doveva essere caldo. La
decisione che si sarebbe presa sarebbe stata comunque a senso unico.
- Inutile, non
serve discutere con voi, - R. era nervoso, le mani gli
tremavano e il suo tono di voce iniziava a scomporsi in piccoli
sbalzi nevrotici, -la verità è che avete solo voglia di fare
rumore, di farvi sentire.
La gente iniziava a
rumoreggiare non poco, quelli delle prime file erano in piedi e
alcuni si stavano dirigendo verso di lui con fare tutt'altro che
conciliante. Stavano dando torto a R., che forse per la prima volta
si trovava in una situazione come quella. Non poteva far leva sui
suoi trucchi, sul suo esprimersi a metà, sul suo amichevole e
conciliante opportunismo. Aveva scelto di comportarsi in un'altra
maniera e ne stava pagando le conseguenze. Era nudo nel suo dissenso
per quell'insieme scomposto di banalità e dogmatismi. Tenendo il
microfono ben stretto ha continuato nella sua filippica: - E
allora forza, portate la vostra sfilata di moda alternativa fuori da
qui, fate una bella manifestazione, fatevi caricare, così dormite
meglio. Siete dei viziati e sapete di esserlo. Volete solo concedervi
un po' di svago prima di occupare i vostri posti garantiti da classe
dirigente!
A questo punto il
moderatore gli ha strappato via il microfono mentre l'aula veniva
sommersa dai fischi e un folto gruppo si avventava su di lui. Dopo i
primi spintoni mi sono lanciato in soccorso di R., che veniva
irrimediabilmente trascinato verso l'uscio. Quando sono riuscito a
raggiungerlo era già fuori. Mi sono messo tra lui e gli studenti
inferociti e ho cercato di attirare la sua attenzione. L'ho chiamato,
lui si è girato. Era furioso, sudato, la sua espressione era
lontanissima da quella che avevo imparato a conoscere e che
costituiva la sua chiave per il suo successo con gli altri. Mi si è
avvicinato, mi ha guardato per un attimo che mi è sembrato
un'eternità e mi ha detto: - Vai al diavolo, non provare a farti più
vedere. Poi si è diretto veloce verso l'uscita, e un uovo lanciato
da qualcuno dietro di me l'ha colpito sulla spallina del trench.
Facendo finta di nulla è scomparso dalla nostra vista.
L'assemblea è
finita poco tempo dopo: l'avversione suscitata nei confronti del
controrivoluzionario R. aveva fatto vincere la linea dura. Inutile dire
che il giorno dopo l'università era già stata sgomberata e il
movimento disperso. Dopo qualche manifestazione contro la violenza
poliziesca e contro l'università dei padroni la partecipazione è
iniziata a scemare e la foga di quella stagione di lotta è rientrata
negli argini. Di R. non se ne è più saputo nulla. A lezione sedeva
nelle ultime file e non mi rivolgeva più nemmeno uno sguardo. Dopo
pochi mesi ha lasciato l'università.
Mi sentivo
terribilmente in colpa per quello che era successo. Non era mia
intenzione, non pensavo che le cose sarebbero andate così. Lui aveva
esagerato, si era posto nel modo sbagliato. Solo dopo un po' ho
capito che forse l'aveva fatto per non deludermi. In fondo poteva
limitarsi a rimanere vago e a dire qualche cosa tipo “bisogna fare
i giri nelle aule per informare gli studenti”. Sarebbe rientrato
nel suo stile, no? Sarebbero stati tutti contenti e lui non si
sarebbe sputtanato. Invece no, aveva fatto valere la sua idea, la sua
ragione, la sua lucidità mentale. Si era esposto, ma l'aveva fatto
nel luogo sbagliato, nonostante la maggior parte dei presenti in
quell'aula fosse in buona fede.
Non l'ho più
rivisto e nessuno è mai riuscito a dirmi che fine avesse fatto.
Forse era andato all'estero, forse aveva “cambiato aria” pure
lui. Magari qualcosa si era mosso dentro la sua testa dopo
l'esperienza di quell'assemblea. Rimaneva da capire se ne fosse valsa
la pena.
Solo diversi anni
dopo ho saputo che si era messo a lavorare di brutto perché
l'università non poteva più permettersela. Lui, quel fighetto
figlio di papà cacciato da un'assemblea che voleva regalare a tutti
l'istruzione, era stato escluso da quel sistema di “selezione della
classe dirigente”. Classe dirigente di cui non faceva parte e di
cui non avrebbe mai ingrossato le fila. Ora capivo molte cose: perché
fosse rimasto nella sua città a studiare, perché nutrisse tanto cinismo verso un'istituzione dalla quale si sentiva escluso in partenza
e perché fosse così diffidente nei confronti di quelle lotte
intrise di borghesia e idealismo poco pratico. La verità è che lui
voleva solo stare tranquillo, socializzare, non scontentare nessuno:
evidentemente di problemi ne aveva già tanti senza doverseli andare
a creare ad arte. La sua battaglia per un futuro migliore la faceva
nella vita. I rapporti sociali erano il suo balsamo, la sua chiave di
accesso ad una vita da non-escluso. Le persone -nella loro diversità-
erano quello che c'era di bello nella sua vita. Peccato che è
impossibile andare bene a tutti e che presto o tardi ognuno -chi più
chi meno- viene rimesso al suo posto. Lui l'aveva capito quel giorno.
Ancora oggi però, a tanti anni di distanza, non riesco a non pensare
che forse quella sua tattica poteva anche durare: se solo -quella
volta- avesse mascherato un pochino il suo "nocciolo" di personalità,
se solo avesse mentito, se solo non avesse voluto dimostrarmi di
essere una persona completa, per niente camaleontica, migliore di
me...
Matteo Castello
Matteo Castello
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