Lui nella vita sociale ci sguazzava,
parola mia. Non ho mai conosciuto nessuno capace quanto il buon R. di
destreggiarsi con tanta maestria attraverso la jungla delle
relazioni, le rapide delle logiche di gruppo, le correnti
dell'accettazione sociale. Sapeva cosa fare e cosa dire sempre e
comunque, illuminava con il suo ego ogni ambiente dove fossero
presenti più di due persone (lui escluso), aveva assi nella manica
per ogni evenienza e necessità. Faceva tutto con garbo, mai sopra le
righe. E vinceva, inutile dirlo, ogni mano.
Erano tempi strani quelli in cui ho
conosciuto R., tempi che sono passati troppo in fretta, vissuti
pienamente ma senza pensarci su troppo. Idea e realtà sembravano
collegati: non lo erano affatto. Si agiva e basta, credendo di essere
guidati da qualche ideale che però sfumava appena la foga collettiva
scemava, lasciando come scarti solo stanchezza e incompletezza. Il
tempo in quel periodo era una melassa che si contorceva e si
modellava disordinatamente, creando strati su strati che si
mischiavano, si addensavano, restavano appiccicati alla pelle. Se ti
ci trovavi dovevi starci dentro, invischiato fino al collo. A volte
mi capita di pensarci e sembrano passati decenni, altre invece è
come se fossero trascorsi pochi giorni.
Eravamo diversi, io e R. Non credo che
quel periodo per lui abbia avuto lo stesso valore, che si sia
manifestato in maniera tanto prepotente. Tutto sembrava scivolargli
addosso. Eppure lui era lì nel mucchio, come uno scoglio in mezzo al
mare: la sua presenza era tanto fisica da fendere le correnti di
folla senza esserne scalfito. Ne era piuttosto levigato, e riluceva
statico del riconoscimento e dell'ammirazione altrui, che colava sui
suoi bordi, schiumando e frizzando.
Nell'ordinarietà delle lezioni, uniche
manifestazioni di come la sostanza non fosse per niente turbata dal
ronzio studentesco, ho conosciuto R. Non era uno di quelli da prima
fila, non ricercava l'approvazione dei professori, non gli
interessava -apparentemente- rendersi visibile. Ma riusciva comunque
ad essere destinatario di attenzioni e interesse. Avvolto nel suo
trench nero usciva dall'aula appena finita la lezione, eppure
qualcuno lo fermava appena varcata la soglia. Dubbi sul concetto di
habitus, che è una struttura strutturante e quindi è un po' come
dire che c'è qualcosa di deterministico nelle relazioni sociali
(vieni da me a cena, così ripassiamo, o guardiamo un film, o
usciamo, ti va?), commenti su quanto l'etnocentrismo sia un odioso
problema della cultura occidentale (c'è un ristorante africano che è
una meraviglia, ci vado con degli amici, vieni anche tu?), o su
quanto fosse spregevole il didascalismo del professore di geografia
economica (chissà cosa pretenderà che gli diciamo all'esame, ma al
limite studiamo insieme, da me c'è posto).
Io non gli chiedevo nulla, pur
trovandomi spesso vicino a lui, nelle file di mezzo. Le file di mezzo
erano ottime per non dare troppo nell'occhio, per avere un certo
controllo sull'aula senza isolarsi del tutto piazzandosi negli ultimi
posti. Era il posto della normalità, che poteva
essere occupato tanto da mediocri quanto da brillanti arrampicatori
sociali.
“Il materialismo storico dice che
… la storia è fatta soprattutto dalle... dalle cose materiali,
cioè, dai soldi e dal cibo, tipo. No?” Un sorriso cinico, uno
sguardo: quello è stato il primo contatto con R. La derisione
sottile di un “collega” della nostra comune azienda
universitaria.
- Chissà se gli chiedeva la caduta tendenziale del saggio di profitto, ho bisbigliato io.
- Marx aveva il senso dell'umorismo,
si starà sbellicando nella tomba, ha detto lui.
Complicità, si era creato un legame. È
passato del tempo prima che io e R. cominciassimo a frequentarci: un
conoscerci lento, fatto di commenti appena abbozzati sulle lezioni,
occhiate di intesa o smorfie di disappunto.
La polizia aveva caricato più volte il
giorno in cui abbiamo fatto la prima vera chiacchierata. Tutti noi
eravamo ancora frastornati ed esaltati dalla scarica di adrenalina
che ci rifocillava e ci dava, a chi in buona fede e a chi meno, le
motivazioni per “continuer le combat”. Nonostante il sudore, i
piedi doloranti e un filo di mal di testa la lezione delle 16 non si
poteva perdere. La rivoluzione era importante ma lo erano anche gli
esami arretrati e il foglietto di carta che poteva garantire uno
stipendio un po' maggiore, alla faccia della lotta di classe.
Ovviamente R. era presente, con la sua solita eleganza discreta, mai
troppo presuntuosa.
- Che giornata oggi, hanno caricato.
Avevo voglia di sapere che ne pensava della mobilitazione
studentesca, e soprattutto perché non si era mai fatto vedere ad una
riunione o ad una manifestazione.
- Mmm? Immerso nelle nuvole si
mostrava sorpreso del mio evidente tentativo di cominciare un dialogo
vero e proprio.
- No, dico, la polizia. Oggi c'era
manifestazione.
- Ah, si ho sentito... Avete corso
quindi. Nelle sue parole c'era cordialità, ma non interesse. La
cosa mi affascinava tantissimo: come ci si poteva mostrare
indifferenti di fronte al sommovimento generale che finalmente dava
l'impressione di un cambiamento in atto, o almeno di una
disintegrazione della staticità (che non era comunque poco)?
- Tu non c'eri. Come mai?
- Non mi interessano queste cose.
Cioè, la dimensione collettiva mi...
Il professore invitava a prendere posto
per l'inizio della lezione.
- Ne parliamo dopo, ok?
Me l'aveva chiesto lui, non potevo
rifiutare. Così due ore dopo io e R. eravamo l'uno di fronte
all'altro al tavolino di un bar a bere un caffè. Si era già fatto
buio e l'aria era limpida e gelata. Quell'ora mi piaceva tantissimo,
tutto sembrava rallentare e i contorni delle cose si facevano meno
sgranati, più nitidi. La stanchezza della giornata di manifestazione
era riassorbita da una normalità che in quell'ora particolare
acquistava un fascino impagabile. Il tepore del locale che ospitava
giovani studenti impegnati a far di tutto per scrollarsi di dosso la
postura accademica mi faceva l'effetto di un balsamo.
- Tu di dove sei?
- Di qua, mi ha risposto.
- Ma dai, sei un reduce quindi?
- In che senso?
- Nel senso che tutti solitamente se
ne vanno dalla propria città per l'università.
- Mi chiedo perché, sinceramente,
ha risposto lui.
- Mah, forse per vedere nuovi posti,
per cambiare aria... Abbozzavo ragioni sommarie, perché mi
interessava sapere cosa pensava lui.
- Mmm. Di solito si cercano nuove
persone, non nuovi posti. E poi l'aria più o meno è sempre la
stessa dovunque. Ha fatto un sorrisetto per smorzare il tono
polemico.- In realtà da questo punto di vista è come se mi fossi
mosso anche io. Sai, tutti gli autoctoni se ne sono andati lasciando
il posto ad una marea di fuori sede, di gente nuova. Ho cambiato aria
senza muovermi di un passo, no?
- Forse hai ragione, sta di fatto
che per me spostarmi è stata la salvezza. Da me non succede nulla,
tutto è fermo.
- Ma no, è un'impressione, fidati.
Perché, qua si muove qualcosa?
- Be' si dai, c'è il movimento.
- Ah già, il movimento. Si muove
per definizione il movimento.
Aveva un suo modo di essere simpatico
dandoti torto che non poteva offendere, non riusciva ad apparire
sgradevole. Era liberissimo di dire quello che pensava, lo faceva con
schiettezza ma mantenendo aperti spiragli, senza mai chiudere la
discussione. Il suo modo di essere socievole era quasi perfetto:
teneva in piedi la conversazione dicendo quello che pensava, ma in
modo sfumato, così da lasciartelo percepire senza chiarire del tutto
il suo modo di vedere le cose. E questo alla gente piaceva, perché
non veniva mai veramente contraddetta da R. Più volte avevo fatto
attenzione al suo modo di porsi con gli altri, e sembrava avesse un
preciso metodo al quale si atteneva con fermezza e naturalezza. Con
me però era diverso, mi aveva dato torto, anche se aveva mantenuto
il suo enigmatico contegno. Però volevo andare oltre, volevo che mi
dicesse “stai dicendo cazzate”.
- Dicevi, prima, che non ti
interessa la politica.
- No, in realtà non è che non mi
interessa la politica. È la dimensione collettiva della politica che
non mi convince.
- In che senso?
- Nel senso che per quanto possano
esserci ragioni, buoni motivi, analisi serie... be', tutto viene
banalizzato non appena deve diventare ragione di massa. Si passa
dalla teoria allo slogan, dai passaggi logici ai mantra catechistici.
La ragione in tutto questo non c'entra per niente, così non me ne
interesso.
- Ma allora non si possono cambiare
le cose, bisogna star fermi. Non c'è speranza, ho chiesto.
- Al giorno d'oggi no. Perché la gente si accontenta... anzi, vuole lo slogan. Quindi lo slogan non è solo un modo per semplificare il ragionamento, per renderlo funzionale all'assorbimento rapido, ma diventa l'anima stessa dell'espressione collettiva delle idee.
- Al giorno d'oggi no. Perché la gente si accontenta... anzi, vuole lo slogan. Quindi lo slogan non è solo un modo per semplificare il ragionamento, per renderlo funzionale all'assorbimento rapido, ma diventa l'anima stessa dell'espressione collettiva delle idee.
- Non sono d'accordo. Non è così.
Se tu partecipassi alle assemblee, alle riunioni, ai gruppi di
lavoro... Be' capiresti che c'è un'elaborazione che procede, che si
sta sviluppando. Servono parole nuove, pratiche condivise...
- Per fare che? Per scendere in
piazza a dire le stesse cose trite e ritrite? Vogliono una nuova
università ma poi accettano completamente le ragioni e le
valutazioni di questa università. Vogliono
l'università antiborghese ma mantengono i parametri e gli schemi
concettuali borghesi. Se avessero davvero voluto abbattere
l'università non si sarebbero dovuti iscrivere. L'università ha,
che lo vogliate o meno, uno scopo preciso, che è quello della
divisione del lavoro, della formazione della classe dominante.
- Ma la cultura critica, i saperi...
L'università dovrebbe...
Ero spiazzato, in qualche modo pensavo
che le sue critiche avrebbero pescato dal classico repertorio
populista “sono tutti figli di papà a cui piace far casino”, ma
la sua analisi era più complessa, e io non ero abbastanza preparato.
Ero stato troppo occupato a immedesimarmi nella protesta per avere
avuto il tempo di coglierne gli aspetti critici.
- Ma senti -mi ha detto lui- tu
perché hai fatto l'università?
Una domanda facile. Facile?
- Be', perché mi
interessava...volevo...
Non
sapevo perché diamine ci fossi finito, all'università, questa era
la verità.
- Perché non avevo altra scelta, ho
concluso.
- Bene. Pure io. Facile no?
Ci siamo scambiati un'occhiata di
approvazione, poi ci siamo messi a ridere, entrambi sollevati di aver
chiuso una conversazione che stava diventando troppo impegnativa. Ci
siamo alzati dal tavolino, ognuno ha pagato la sua consumazione, ci
siamo stretti la mano e ci siamo salutati.
Matteo Castello
Matteo Castello
0 commenti:
Posta un commento
Commenta e dimmi la tua. Grazie!