Intanto cammino, e noto che ci sono
tantissimi negozi di vestiti. C'è crisi ma aprono negozi di
abbigliamento uno dopo l'altro. E la gente si ferma e guarda
affascinata, pensando a se stessa con uno dei capi esposti in
vetrina. “Come sarò figa con questo addosso”, pensa la
tipa ferma a pochi centimetri dal vetro. “Come sarò intrigante
e misterioso con questa camicia un po' trasandata che però costa un
fottio” pensa un giovane che con la sua falsa noncuranza
camuffa male le ore passate davanti allo specchio. Niente di cui
stupirsi, è un bel giochino, è il carnevale quotidiano. E' sempre
stato così e così sarà sempre. Pure io ho pensato a cosa mettermi
prima di uscire di casa, come tutti gli altri.
La mia direzione ora sono i tavolini
del mio solito bar, quel microcosmo rassicurante fatto di dialoghi
funzionali. Lo raggiungo presto, dopo aver oltrepassato il pullulare
della via piena di cose da comprare e di gente desiderosa di non far
altro che spendere i propri soldi. Mi siedo nel déhor, in modo da
osservare i passanti che animano le strade. In pochi minuti il
cameriere prende la mia ordinazione -“un caffé, grazie”-
e io ne approfitto per accendermi una sigaretta. Vicino a me c'è una
coppia che discute, ma quello che mi attira è la canzone che sta
passando alla radio. Un pezzo in italiano, dove il cantante sfoggia
una voce cristallina e rassicurante. Cerco di soffermarmi sul testo.
Si parla d'amore, lui è stato lasciato e senza di lei non ce la fa
più. Più o meno il ritornello recita così: “Senza lei / sono
vani i giorni miei / Senza lei / come è triste quando non ci sei /
Se c'è il sole non lo vedo / Tiro dritto e me ne frego...”. Un
capolavoro di sintassi, non c'è che dire. Ma quel che conta è la
musicalità, la ripetizione, la linearità, l'assenza di bruschi
cambi o concetti troppo impegnativi. Sospiro e bevo il caffè, quando
senza volerlo mi arrivano frammenti di discorso della coppia al
tavolino vicino. “Guarda che te lo assicuro, cioè lei proprio
non conta più un cazzo”. “Non conta un cazzo? Ma se hai
fatto l'arrapato per tutto il tempo. Abbracci e baci, ma che vuole
quella?”. Lui riprende la sua difesa: “è che non ci si
vedeva da tanto tempo... Ma poi lo sai che c'ero stato insieme. E
comunque chi l'ha più vista? Volevo essere solo gentile. Giuro che
era solo per essere gentile”. Sono giovani e lei assume
un'espressione pateticamente corrucciata e offesa. Lui si mostra
scocciato e si guarda attorno nervosamente. Perdo attenzione, la
canzone è finita e adesso c'è un pezzo inglese, o americano. Le
parole non le capisco, meglio così. La coppia si alza e va a pagare.
Pagherà lui, ovviamente, perché il femminismo è finito e bisogna
evitare lo sguardo scandalizzato del tipo alla cassa: “ma come,
fai pagare a lei?”. Io sono al tavolino e la gente continua a
scorrere. C'è un vecchio a qualche posto dal mio che sta
spaparanzato sulla sedia con la sigaretta accesa, lo sguardo
corrucciato, e ogni volta che passa una femmina, di qualsiasi età ed
etnia, lui le segue il culo girando piano il collo. Un movimento
ipnotico, concluso con lui che solleva appena le ciglia e dà una
tirata alla sigaretta. Basta, questo bar mi sta stancando. Mi alzo e
vado a pagare, per poi ributtarmi nelle strade affollate del centro.
Devo comprare da bere per la sera,
qualche birra che non costi troppo per dormire tranquillo e felice.
Il discount è poco lontano e mi farà sicuramente fare un bel tuffo
nell'umanità intenta a fare la cosa più spontanea e neutrale:
procacciarsi il cibo. Niente lance e frecce, ma un carrello e tanta
attenzione al rapporto qualità-prezzo. Anche in un supermercato vige
la legge della jungla. Il più forte mangia di più, accumula più
grassi e riesce a contenere il deflusso di denaro. Così entro in
questo regno di cibarie al fresco, scatolette a lunga conservazione e
detersivi colorati. Mi dirigo al reparto alcolici e cerco la birra
più conveniente. Un euro per una bottiglia mi pare un prezzo
accettabile: ne prendo tre. Mi dirigo alle casse, c'è coda. Davanti
a me una vecchietta con del cibo per gatti, una bottiglia di liquore
e un ciuffo di insalata. “Che dieta strana, signora”,
penso. C'è un attimo di confusione, perché la cassa accanto ha
appena aperto. Durante lo spostamento insensato della maggior parte
dei clienti -che ora si trova sempre in coda ma ad una nuova cassa-
un tizio si è infilato davanti all'anziana signora. Si capisce
subito che è straniero, parla con un suo coetaneo in una lingua
slava, o qualcosa del genere. La vecchia invece di chiedere al
signore di riavere il suo posto (per favore) strizza la faccia
assumendo le sembianze di una prugna raggrinzita e dice quello che
non avrei voluto sentire. “Questi dovrebbero tornare a casa
loro. Son buoni solo a rubare, questi”. Subito uno dietro di me
le dà corda annuendo vistosamente: “una volta li si prendeva a
calci. Ora... che tempi, non si sta più mica tranquilli”. Lo
slavo si è accorto di essere al centro della tempesta di pregiudizi
etnici e comincia a guardare male la vecchia, il solidale e me. Io
penso che tutto sommato ha fatto una cazzata, poteva rispettare la
coda, manco avesse il pepe al culo (sta comprando delle pile stilo e
del nastro adesivo). Però questo non giustifica il razzismo dei miei
compagni consumatori. Anzi, sono indotto a pensare che in qualche
modo lo slavo ha fatto bene. Non meritano nessun rispetto queste
persone viziate che si aspettano che il mondo vada come vogliono loro
senza fare alcuno sforzo. Ma aspetta: loro son vecchi, guardano i
telegiornali allarmisti e si cagano sotto di fronte a presunte
invasioni di orde barbariche assetate di sangue. In più han lavorato
una vita per niente e giustamente li rode il culo. Si stava meglio
quando si stava peggio eccetera eccetera. Questa la spiegazione.
Certo però che è difficile trovare sempre una giustificazione a
tutto. Sarebbe più facile, al limite, tacciare tutti di imbecillità.
Ma non era questo quello che mi ero preposto. Nessun giudizio:
Nessuno ha ragione, nessuno ha torto. Ognuno reagisce secondo la sua
natura ai diversi impulsi. Bella merda.
Già, bella merda. In fondo chi l'ha
detto che giudicare è sbagliato? Perché mi sono lanciato in questa
impresa così stupida? Mi rendo conto d'un tratto che ho perso, ma
sto meglio di prima. Tutto intorno a me inizia a prendere colore,
nonostante i pessimi casi umani che mi sono capitati davanti. Decido
che è ora di tornare a casa, però questa volta prenderò un bus.
Una volta salito a bordo la scena che ho davanti è la solita: tutti
i posti sono occupati, e diverse persone sono in piedi attaccate alle
maniglie ciondolanti. Vicino a me c'è una vecchietta, davanti a lei,
seduto, un giovanotto che mastica una gomma e se ne fotte ampiamente
di tutto, tranne che della sua acconciatura da tamarro. Aspetto un
po', magari se ne accorge e lascia il posto. Ma va', niente. La
signora è visibilmente stanca e nessuno la fa sedere. A questo punto
mi decido: “senti, riesci mica a lasciare il posto alla
signora?”. Lui solleva lo sguardo, abbassa gli occhiali e mi fa
“cazzo vuoi?”. Merda, non ero preparato a questo, sento la
rabbia che sale, sarebbe da spaccargli la faccia così, su due piedi.
Ma cerco di star calmo e rispondo: “voglio che tu, gentilmente,
faccia sedere la signora che è stanca. Ci arrivi o no?”.
L'ho detto con un po' troppa presunzione, motivato dagli sguardi
incoraggianti dei presenti. “Com'è che mi hai parlato?”
ripete questo, alzandosi. Approfittando della cosa invito la signora
a sedersi, cercando di ignorare il tipo che si è fatto minaccioso.
Sembra un po' su di giri, sarà sotto l'effetto di qualche sostanza,
o un po' ubriaco. Con tutte le persone che ci sono dovevo attaccare
briga con un palestrato fighetto strafatto, cristo. E' la mia
fermata, scendo, lui mi segue. Butta male. Infatti mi ferma
piazzandomi una mano sulla spalla. “Così fai il duro eh?
Ci tieni tanto alle vecchiette?”.
“Poteva essere tua nonna, amico. Ora finiscila però”.
“Finiscila un cazzo, chi ti credi di essere? Ma lo sai che mo' ti
spacco? Eh?”. Ok, sono
spaventato, ma anche incazzato nero. Questo ha una faccia di merda
che non finisce più, uno di quelli per cui varrebbe la pena tornare
alle punizioni corporali. “Senti un po', se non ti hanno
insegnato come cazzo funziona l'educazione non so cosa farci. Ora non
rompere i coglioni.” - “Cazzo
vuoi, giudichi? Che cazzo giudichi, tu non mi puoi giudicare!”
Non mi puoi giudicare, l'ha detto davvero! Dovrei raccontargli tutte
le vicissitudini e i giri di testa che mi sono fatto prima di aver a
che fare con lui. Ma non credo sarebbe una buona idea... Sorrido
sotto i baffi pensandoci. E ora la paura non c'è più. “Si
che ti posso giudicare, stronzetto. Perché non sei altro che un
coglione. Un COGLIONE, capito? Uno stronzetto viziato senza un
briciolo di cervello. Vai a fanculo!”.
Liberazione. Col cazzo che non giudico. C'è il male e il bene. C'è
il giusto e lo sbagliato. Ci sono le persone ok e i pezzi di merda. E
non c'è giustificazione che tenga.
Un
quarto d'ora e sono a casa, raggiante. Tolgo le scarpe, mi sfilo la
maglietta, faccio partire lo stereo e mi stendo sul divano. Con due
birre, ancora belle fresche. Una la stappo. L'altra no, la appoggio
piano sull'occhio dolorante, che domani sarà bello nero. Col cazzo
che non ti posso giudicare, stronzetto, anche se a volte fa proprio
male.
Matteo Castello
Matteo Castello
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