I.
Sono annoiato. Non capisco come si
possa celebrare la noia. C'è chi l'ha definita un “mostro
delicato”, o chi l'ha considerata come lo scotto che devono pagare
i grandi, una sorta di insoddisfazione che le anime eccelse traggono
dal non essere appagate dalla mediocrità dell'esistente.
Io invece sono annoiato e mi sento uno
schifo, un microbo, un nulla. Mi sento anche malinconico, il
desiderio mi tormenta. Non so cosa desidero. Mi divora la tensione
verso un traguardo indefinito, verso una totalità di cui non mi
sento parte. Anzi, da questa totalità mi sento deriso, peggio:
ignorato. Guardo dalla finestra e vedo un'immagine spenta e distante
di un mondo estraneo, ostile, grigio. Sono un graffio, uno sbuffo, un
grumo disordinato in una materia fluida e sciolta. Mi annoio, sono
un'anima in pena. Malinconia e noia si confondono, si rincorrono, si
mescolano in un eterno tira e molla, in un continuo arrovellarsi
della pazienza. Il tempo si fa infinito nella maniera più scostante.
Desidererei addormentarmi e poter saltare subito al domani, lasciando
al sonno il compito di dipanare la matassa che blocca lo scorrere
disinvolto delle ore.
II.
Però è solo mattina. Mi sono
svegliato di buon'ora, ho fatto colazione, mi sono lavato via dagli
occhi gli ultimi residui della notte, poi mi sono seduto in camera
mia, il letto ancora disfatto e corrugato del mio sonno. Ho guardato
fuori dalla finestra. Mi sono scoperto ineluttabilmente solo. Mi ha
accolto nel mondo degli svegli un cielo pallido, un'aria immobile.
Sembra che tutto sia rimasto impresso in un dagherrotipo sbiadito,
che tutto sia anchilosato. Sono l'unica cosa che si muove in un magma
rigido. Un'ora è l'Eternità che mi punzecchia, lo sento
espressamente. Sento un peso che mi sbilancia su un lato
costringendomi a non fermarmi mai, a ricercare l'equilibrio in un
continuo ciondolìo irrequieto. Decido che è l'ora di un caffè.
Così spezzerò l'insensata tensione verso il nulla e darò forma ai
minuti. Con passi di lumaca molle mi dirigo verso la cucina. Le
stanze sembrano digerirsi vicendevolmente. Non mi ero mai accorto di
vivere in un'interminabile corridoio che ingloba una stanza
nell'altra. Le pareti non svolgono il loro ruolo di separare spazi
con funzioni diverse: tutto è prostrato all'unica funzione di essere
una cella che mi rinchiude e mi soffoca. Sono incredibilmente
annoiato. Prendo la caffettiera, la svito, estraggo il filtro ancora
pieno del caffè vecchio. Lo gratto via con le dita: si è indurito e
frammenti rimangono attaccati alle pareti della moka. L'acqua del
lavandino scorre fredda, indugio in una pulizia eccessiva, maniacale,
inutile. Guardo ancora fuori dalla finestra: l'autunno sta prendendo
forma nelle foglie gialle e nel cielo basso. Sto sprecando l'acqua e
ho voglia di caffé. Finalmente riempo il filtro di polvere,
rovesciandone un poco nel lavandino con gesti svogliati. Richiudo e
metto sul fuoco.
Una volta mi affascinava il fatto che
le fiamme del fornello potessero assumere quel colore azzurro per poi
riaccendersi di arancio in cima. Stavo a guardare la fiamma per
diversi minuti perdendomi nei suoi riflessi cangianti, esattamente
come faccio ora. Ma ora so che è tutto frutto di un processo chimico
e non è più tanto divertente. Il mistero è svelato e io sono
appiattito da un sapere dozzinale e deludente. L'ovvio ha sostituito
la meraviglia. Poco male, l'acqua bollente ha iniziato a salire
trascinando con sé la polvere profumata e formando un amalgama scuro
e aromatico. Mi interessa soprattutto la caffeina ma mi regalo
un'annusata veloce. Il profumo è buono e per un istante il mio
orizzonte combacia con la tazzina da cui berrò presto. Un goccio di
latte, non di più, poco zucchero. Non mi siedo, mi appoggio di
fronte alla finestra della cucina, soffio sul liquido caldo, guardo
fuori, guardo la tazzina, bevo un sorso, riguardo fuori. Il vapore
sale e appanna leggermente il vetro. Solo i primi sorsi sono troppo
caldi, subito la bevanda è pronta per essere buttata giù d'un
colpo. Rimango con la tazzina vuota, i cinque minuti di evasione
dalla mia casa che mi sta inghiottendo sono terminati.
III.
Ho di fronte a me l'eternità
spezzettata in tanti secondi tutti uguali di cui è fatto un giorno.
Non ambisco a nulla eppure mi sento manchevole di tutto.
Ripercorro lo spazio fino a camera mia,
una volta arrivato accendo il pc: l'unica finestra attraverso la
quale può giungere qualche stimolo esterno che mi smuova.
Controllerò la mail, leggerò le notizie. Qualcosa capiterà.
L'unica nota positiva è che sono già le undici e mezza, mi sono
svegliato tardi e la giornata durerà di meno. Il momento del pranzo
spezzerà la noia per portarmi stimoli gastrici e gesti finalizzati a
qualcosa, al nutrimento, al movimento della mascella, all'attività
intestinale. E' ancora presto, però. Se mangio adesso rischio di
finire troppo in fretta e trovarmi davanti ad un pomeriggio di ore
eterne ed immobili. Non ho voglia di ascoltare musica, ogni nota è
così piatta quando la si costringe ad accompagnare la Noia, ogni
frequenza risulta un ronzio vuoto, inespressivo. Il vuoto non si può
colmare che con altro vuoto: accenderò la tv. La scatola di luce
vomita parole ed immagini. C'è un programma dove la gente si diverte
a cucinare ricette ogni giorno nuove. Ogni discorso ha la sola
funzione di fornire un sottofondo ai gesti dei cuochi, ogni parola è
superflua e si accosta ad altrettante ancora più inutili. Basta,
cambio. Una televendita di pentole, cambio, una trasmissione dove c'è
un presunto giudice che ascolta due donne sulla cinquantina che
stanno litigando tra loro, cambio, un vecchio film western con i
colori sgranati, cambio, un telegiornale. Proverò a guardare il
telegiornale. Si parla di economia, parte un servizio sui consumi
delle famiglie e le riprese di repertorio si susseguono l'una dopo
l'altra in una soluzione di continuità azzardata: un negozio con un
cassiere che serve il cliente e sorride, un mercato affollato,
un'officina con gli operai intenti a compiere gesti meccanici, poi
un'intervista ad un esperto, forse un economista, che snocciola dati
e conclusioni. Torno indietro di qualche canale: frammenti di film
western, le signore stanno ancora litigando, la televendita è finita
e c'è un telefilm riciclato con macchine veloci e poliziotti, e
ancora le ricette e le pentole fumanti. Spengo, è ora di pranzo.
Fuori pioviggina e tira vento. Mi soffermo un attimo alla finestra
per guardare se all'orizzonte ci sono segni di una schiarita. Tutto è
ancora grigio e la città sembra inchiodata nel tempo, ora ancora più
ferma, assopita nell'orario della pausa-pranzo.
IV.
Ho fame ma il frigo mi offre i soliti
ingredienti, e poi non ho così voglia di cucinare ricette troppo
impegnative. Una carbonara andrà bene. Forse le giornate noiose sono
la giusta ricompensa per le persone noiose, penso. Intanto verso
l'olio nel pentolino, lo faccio scaldare mentre strappo la velina di
plastica della confezione di pancetta. Un senso di oppressione mi sta
schiacciando, non ho più fame, vorrei addormentarmi o essere
all'altro capo del mondo. Faccio un respiro, poi un sospiro. Verso la
pancetta nell'olio bollente e lo sfrigolio dei cubetti di carne
diffonde un odore intenso che mi fa ritornare l'appetito. Preparo le
uova: uno intero e un rosso, parmigiano, pepe. Poi peso la pasta. Ne
metto tanta per paura di sottovalutare la mia fame. Metto l'acqua a
bollire, già calda per fare prima, nonostante non abbia nulla da
fare per il resto del pomeriggio. Metto un disco che mi tenga
compagnia mentre apparecchio e aspetto di buttare la pasta. Il vuoto
è sempre presente ma ora è come se fosse innocuo, in un rispetto
ossequioso della pausa pranzo del mondo. Sarebbe bello avere uno
strumento per poter mandare avanti i minuti velocemente, come il
“forward” dei vecchi lettori di cassette. Poi però ci vorrebbe
anche il rewind, perché sicuramente si sbaglierebbe il momento dello
stop facendo bruciare la pancetta o scuocere la pasta. Appunto.
Spengo il fuoco, ormai la pancetta è croccante. L'acqua bolle, pochi
minuti e mangerò. Il rewind, penso, a cosa serve se ho tanta voglia
di andare avanti? La verità è che c'è sempre qualcosa su cui
soffermarsi. C'è come una non-dispensabilità dei secondi quando ci
mettiamo di fronte all'opzione, anche immaginaria, di bruciarli. La
cosa non mi fa star granché meglio: il vicolo cieco è l'immagine
che meglio descrive questa situazione di esistenza inceppata. Non si
può far altro che assecondare la noia, oppure trovare la forza di
combatterla. Oppure sperare in un intervento risolutore esterno. Mi
accorgo che le vibrazioni della musica aleggiano negli spazi vuoti
della casa, stagnando come il fumo in un locale pubblico qualche anno
fa. La cosa mi infastidisce, faccio tacere lo stereo.
V.
Cosa mi annoia? E' difficile trovare
una fonte precisa. La noia sono io? La noia è endogena? Non ha
senso. Io al massimo sono noioso, l'ho già detto. Per cui posso
essere una fonte di noia per qualcun altro. Quindi la noia è
esogena, viene dall'esterno. Mi annoia questa casa dove ogni elemento
è la prevedibilità che si oggettiva, mi tedia la ripetizione della
routine, mi stancano i programmi mediocri della televisione.
L'assenza di stimolo è il problema. Ma forse sono io che non sono
ricettivo, perché se ci penso nel mondo là fuori succedono una
miriade di cose. La noia allora è il frutto marcio di un sistema
sociale repressivo, depressivo, che azzera le ambizioni e tarpa le
ali. Perché dare la colpa al prossimo è poco educato, darla al
“sistema” dà un tono e semplifica paradossalmente le cose, senza
risolvere un bel niente. La verità è che sono solo nella mia
giornata noiosa e nulla elettrizza il tempo stagnante e puzzolente
che si rapprende negli angoli e negli infissi delle porte, così come
nella pasta che ormai è pronta e va scolata e mangiata.
VI.
Il pranzo sfugge alle logiche inceppate
che mi rendono tanto insopportabile questa giornata. Mangiare è una
necessità slegata da ogni speculazione, una soddisfazione meccanica.
Soddisfazione... Meccanica... Avrei voglia di scopare. Ecco,
accidenti. Ma no, non vale. Il sesso è un desiderio ricorrente per
nulla ascrivibile alla contingenza particolare in cui mi trovo
infangato. C'è qualcosa di più sostanziale di una semplice pulsione
carnale insoddisfatta. C'è un senso di attesa indefinita che mi
innervosisce e mi rende irrequieto. Indolente. Eppure non tutto mi
sembra vano. Mangio, e mentre mangio soddisfo l'appetito, il che mi
infonde un senso di benessere precario ma presente. Permane però
quella forza spirituale che mi schiaccia e mi spinge a tormentarmi, a
girare su me stesso continuamente senza mai soffermarmi su un punto
d'equilibrio. Mentre finisco il cibo nel piatto penso, e mentre penso
fuori continua a tirare vento e a piovigginare, il cielo sempre
grigiastro e cupo. La mia attenzione rivolta al “fuori” fino ad
ora è stata una costante. Forse in questa attrazione sta la chiave
per sbloccare la mia giornata noiosa. Ora sento che qualcosa si
muove, destando la mia consapevolezza, rischiarando una lucidità che
per tutta la mattina era rimasta assopita, schiacciata dall'ambiente
viziato degli spazi funzionali di casa. Prigioniero, sono un
prigioniero. Eppure non c'è catena e non ci sono sbarre, ma
l'esattezza di questa sensazione è schiacciante. Il prigioniero
vorrebbe fare mille cose ma non può. Così si arrovella, si
angoscia, si distrugge di pazza impotenza, finisce con l'annichilirsi
in uno stato larvale semi-cosciente. L'unica speranza sarebbe
l'evasione, il salto nel vuoto dell'imprevisto. La scelta è la
cerniera di giunzione tra uno stato e l'altro, tra la prigionia
sonnacchiosa e il risveglio energico. Realizzo che devo uscire. Non
ho in mente una meta ma l'importante è lasciarsi alle spalle queste
stanze, questi mobili, questo vuoto domestico e trovarsi in
quell'aria fredda che da dentro sembra immobile e ostile. Basta
mangiare, avanzerò quel poco di cibo rimasto nel piatto. Mi alzo e
sparecchio. Lentamente, questa volta vedendo nei miei gesti una
collocazione temporale precisa. Preparo ancora un caffé, giusto
perché l'abitudine me lo impone. E certe abitudini, così come
alcuni vizi, sono da tenere in grande considerazione perché
impongono ritmi e accenti addobbando il tempo. Nell'attesa scuoto
dalle briciole la tovaglia: apro la finestra, il freddo è pungente e
mi vivifica regalandomi un fremito. Respiro e mi convinco
definitivamente che è là fuori la mia soluzione. Il caffé è
pronto, lo bevo di fretta e rientro in camera mia, uscendo dalla
cucina, passando per la sala, poi per il corridoio e infine varcando
la soglia della mia stanza. Il computer è acceso, mi ricordo che
volevo controllare la posta per poi dimenticarmene completamente. Non
ne ho più alcuna intenzione, spengo il portatile impietosamente e
comincio a spogliarmi per trovare una tenuta più adeguata al mondo
là fuori.
VII.
Cammino già da un po', ha smesso di
piovere, e man mano che vado avanti la cappa nera in cui mi ero
ritrovato immerso svanisce. Ora l'orizzonte della mia giornata è
definito. Non ho un vero e proprio obiettivo, né uno scopo. Ma sto
modellando il tempo con i miei passi. Questo l'antidoto, per oggi.
L'evasione è in corso e sono sopravvissuto al salto. Adesso respiro
e scopro la mia libertà misurandola a passi lenti, senza fretta. Il
mondo è sempre fermo, solo che adesso io mi muovo, scrutando
anfratti che non potevo percepire nella staticità di pochi attimi
prima. Vincere la noia è un fatto personale, non ha nulla a che
vedere con l'attesa di interventi esterni, come non ha a che fare ,
almeno non necessariamente, con la trasformazione dell'ambiente che
ci circonda. E' una questione interna, legata allo scrollarsi di
dosso quella sensazione di passivo abbandono, di sconfitta, che lega
e reprime. Non ho risolto niente ma mi sento vivo, questo
l'importante. La mediocrità esiste ancora, il senso forse continua a
latitare, sono sempre solo. Ma sono in movimento e calpesto la realtà
calcando il passo. Come a volerle imprimere la mia presenza ostinata.
Poi verrà sera, poi ancora mattina, mi troverò di nuovo in gabbia,
forse. Ma tutto questo sarà dopo, un'altra volta, poi. Ora cammino.
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