Seconda Parte: qui
Riemergo dai pensieri e sono di nuovo
sulla strada, la mia pedalata è sciolta, respiro regolarmente e
anche se c'è il sole battente non sudo più di tanto. La velocità
ritrovata in questo tratto di piano ha fatto ripartire la testa,
lasciando i muscoli ad accompagnare accondiscendenti il moto dei
pedali. Senza sforzo. Intorno a me c'è meno vegetazione, lo stacco
della precedente salita deve essere stato bello forte, e ora sono
attorniato da pochi alberi solitari e da pareti di roccia che salgono
a monte e ruzzolano in giù a valle con il loro manto di terra ed
erba secca. Lei però è sempre lì, è rimasta impigliata agli
ultimi pensieri e non schioda. Vedo i suoi capelli scuri -scuoto la
testa e pedalo più forte- la sua pelle liscia -cristo basta, pedala
e basta- i suoi occhi e una frase “non dobbiamo vederci più”.
“Basta!”, mi ripeto, e sbuffando faccio saltare per aria le
goccioline di sudore accumulate intorno alle labbra. Devo pensare
alla strada, se no finisce che mi schianto sulle rocce. E sarà tutta
colpa sua. Per fortuna di fronte a me, a poche centinaia di metri,
ricomincia la pendenza, inerpicandosi in alto e sparendo a destra
dietro ad una curva. E' già da un paio d'ore che sono in sella e ne
avrò almeno per altrettanto. La mia occasione per dimenticarmi di
tutto, almeno per qualche minuto, è lì a portata di mano. Voglio
arrivarci il prima possibile, così mi alzo sui pedali, scalo la
marcia e inizio a pompare forte, lasciandomi scorrere accanto il
paesaggio brullo di montagna. D'un tratto riecco la fatica: è
iniziata la salita, mi siedo e cambio nuovamente rapporto. L'aria che
fino a poco prima mi accarezzava il corpo scompare, rimane solo un
caldo opprimente accompagnato dai pochi rumori del paesaggio. Qualche
cinguettio, fruscii di lucertole e serpenti sui pendii e il ritmico
cigolare della bicicletta. Dovevo oliare la catena, ecco. La
temperatura corporea balza in alto e ricomincio a sudare e a
sbuffare, la testa libera e i pensieri spazzati via. Davanti a me
questa strada dissestata che sale e sale.
Anche dopo la curva, che
apre la vista ad un più ampio panorama, allargato sulla città che
se ne sta assopita là sotto, coperta da una leggera coltre di smog
accumulato dopo giorni di siccità e bonaccia. Ma ora devo guardare
dritto davanti a me: la strada di montagna è una vena esposta che
percorre il pendio fino a qualche apice sconosciuto, facendosi sempre
più ripida. Sento il sudore bagnarmi le braccia, lucide al sole e
contratte nel loro stringere il manubrio. Sento gonfiarsi i muscoli
delle gambe. Cerco di mantenere un ritmo, non vado a più di dieci
chilometri all'ora, sono stanco. Ma ecco che tutto il mio corpo è
movimento e basta. Stringo i denti e seguo la linea immaginaria per
terra, disegnata in mezzo alla carreggiata. All'orizzonte non ci sono
macchine, sono in mezzo al nulla delle cinque di pomeriggio profumato
di vegetazione secca. Le curve si diradano ed ora sento le tempie che
pulsano. Prendo la borraccia, mi riempio la bocca di acqua tiepida,
sciacquo e ne sputo un po', il resto la faccio scendere in gola. Un
altro sorso veloce, poi mi bagno la testa. Tante gocce scrosciano dal
casco e le sento scivolare giù per la schiena, lungo il viso, fino
alle gambe in movimento. Sto meglio e mi concentro sul fiato
spezzato. Faccio un respiro profondo e un soffio netto, un'altra
inspirazione piena e ancora un'espirazione decisa. Accordo gambe e
respiro e scalo la salita. Nel frattempo il cielo sta cambiando
colore: si stanno accumulando nuvole all'orizzonte, la luce è più
variegata, meno brillante ma ancora letale. Le montagne sono macchie
imponenti di tonalità verdi scure e marroni, incastonate nello
spazio in contorni violacei. Mi sento come l'unica presenza nel
mondo, io che sono un corpo che suda e spinge, e spinge, e spinge.
Una pedalata, un'altra, un'altra ancora. Conta solo l'aria che cerco
affannosamente di catturare. Al diavolo il ritmo. Tutto questo mentre
intorno a me sale un odore intenso che mischia asfalto e muschio,
amalgamati in un'essenza dal carattere primordiale, eterno, puro.
Fino a che mi scopro giunto in cima. La salita è finita, la pendice
di roccia al mio lato è spaccata da un ruscello che porta con se un
refrigerio che mi punge la pelle bagnata. C'è un breve tratto
d'ombra nel quale mi immergo tentando di riprendere fiato e bere un
po'. La testa vuota, senza pensieri. Inizia la discesa, di nuovo al
sole. Non pedalo, mi lascio sospingere dall'accelerazione
gravitazionale e mi guardo intorno. Ora la vegetazione è più ricca
e i pendii più dolci, con la roccia nuda che si ritrae pian piano,
come intimidita. Se prima volevo la fatica ora voglio la velocità,
così metto la marcia più dura e comincio a spingere. Non pensavo di
avere questa riserva di energia che ora si è liberata portandomi a
raggiungere i quaranta, poi i cinquanta, poi i sessanta chilometri
all'ora. Vorrei arrivare ai cento tanto è piena la sensazione di
libertà che provo ora. Il mondo intorno scorre impetuoso, navigo in
un'aria densa e profumata, sono al centro di ogni cosa. E poi vedo
qualcosa in mezzo alla strada, sembra un ramo, un bastone. Si muove.
Striscia lento. Cristo, un serpente! Io odio i serpenti e un brivido
mi percorre la schiena. Non voglio pestarlo, non voglio passargli
nemmeno accanto. Una frazione di secondo, inchiodo e sterzo. Ma la
ghiaia è come sapone, scivolo e sono a terra in un tonfo secco. La
mia unica preoccupazione, mentre la bici scivola stridendo da una
parte e io mi maciullo ruzzolando dall'altra, è il serpente. Fine.
Sono fermo, raggrumato sul ciglio erboso e pietroso della strada.
Ancora qualche metro e sarei finito di sotto. Sono stordito ma
l'adrenalina mi porta ad alzarmi di scatto: sento una fitta alla
gamba e al braccio, ricado per terra. La verità è che non muovo la
mano e il polso è gonfio. Sulle gambe è come se fossi finito su una
grattuggia. La bici è dalla parte opposta, addossata sulla parete a
monte. Del serpente nessuna traccia.
Dopo un altro tentativo di alzarmi ci
rinuncio. Comincio a sentire davvero male alla gamba e al polso. Così
mi trascino a stento verso un tronco per appoggiarmi con la schiena.
Poggio il braccio inerte sulla coscia e inizio a provare paura. Non
c'è un suono, se non quelli del bosco rado che ho intorno. E sono
solo. Male, fa un male cane, pian piano scopro che ho più
escoriazioni del previsto. Sento di non essere altro che dolore. Però
c'è anche la testa. La testa che inizia a mulinare e vorticare, a
cercare una soluzione, a pensare cosa è più giusto fare. Cercare
l'equilibrio non esiste, sono il disordine disteso a lato della
strada e appoggiato ad un albero. Passano pensieri veloci, fino che
uno si fissa sulla sua presenza. Sono solo. “Non sei solo”,
dice. “Hai pedalato bene, salivi che sembravi un campione”.
La sua voce fresca. I suoi occhi. I capelli scuri. “Ma sono
caduto, sono solo, non so che fare”. “Ci sono io con te,
stai tranquillo”. “Ora rilassati e prima o poi arriverà
qualcuno”. “E poi sarà solo una slogatura”. “Ma
fa male...Rimani con me...”. “Shhh, forza, va tutto bene.
Quando sarai a posto ce ne andremo nella casetta in montagna...”.
“E mangeremo le fragoline di bosco?”. “Si, e
ascolteremo i nostri dischi e tu berrai vino rosso e io...”,
“..e tu vino bianco”.
Matteo Castello
Matteo Castello
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