Pedalare (seconda parte)

La verità è che a volte la realtà mi sfugge, la città dove vivo non sembra mia, le cose che succedono paiono collocarsi oltre una lastra invisibile che rende l'ambiente circostante qualcosa di esterno, di alieno. Come stare in uno di quei souvenir, quelle palle di vetro che una volta scosse simulano paesaggi in piena bufera di neve. Io sono lì dentro, nella bufera, e guardo fuori, immerso in una soluzione che rende le mie sensazioni ovattate e rallentate. Stento a percepire il mio stesso corpo, in quei momenti. E allora ho bisogno di impormi la mia stessa presenza con lo sforzo. Se manca l'aria devo costringermi a respirar più forte, cercando l'ossigeno con la bocca spalancata e i polmoni forzati in spasmi anaerobici. I matti affetti da disturbo borderline fanno più o meno la stessa cosa, ma tutto il giorno, tutti i giorni. Per percepire la propria corporeità si fanno del male, si tagliano e cose così. Io non credo di essere borderline, tanto che il dolore non mi piace e il sangue mi impressiona. Ma ogni tanto uno scossone mi viene da procurarmelo. Una bella botta di acido lattico e adrenalina. Tanto da non riuscire più a camminare una volta sceso dal sellino. È terapeutico e svuota letteralmente la mente dalle scorie accumulate dalla vita passata in questa soffocante città che non sento mia. Della quale non capisco gli abitanti. Che se ne sta fuori da questa lastra invisibile mentre tutto intorno a me vortica e mi stordisce.

Una città fantasma fatta di spettri abitudinari, incastrati in uno scorrere talmente prevedibile da inibire ogni fantasia, ogni pulsione vitale. È tutto già scritto, la ruota continua a girare con la stessa cadenza sonnacchiosa, soffocata dalla stessa cappa opprimente che costringe tutti a raspare il terreno, ad accontentarsi di piaceri riciclati. Una città dove ogni slancio speranzoso verso la felicità viene ridotto in polvere non appena l'illusione sfuma. E non solo: la depressione di ritrovarsi laggiù in basso, ad annaspare nei rimasugli fetidi delle ambizioni lasciate a marcire a terra, costringe in uno stato di desolazione che non ha eguali. A quel punto non c'è stimolo esterno che fornisca l'espediente per rialzarsi, c'è solo il ricordo di cos'era e cosa poteva essere, di cosa si è lasciato e di dove ci si ritrova ora. Le scappatoie sono poche e sono anguste, faticose. Questa è la mia città e la declinazione di una vita comune passata tra le sue strade e le sue case. Questo sono io che sono incastrato qui, con la mia depressione altalenante, fugata soltanto da sporadici momenti di evasione perlopiù frutto di elaborazioni mentali, di fantasie inutili. Vivere in una piccola città è come avere una dose costante di morfina a disposizione: ti culla in un rassicurante stato di torpore, dove ogni cosa pare chiara e nitida, in un'assenza di movimento che lenisce e accarezza. Fino a che non finisce l'effetto della botta. Perché allora ecco che tutto sfuma, si fa confuso, il paragone con l'esterno brulicante rende la notorietà dei gesti quotidiani una tortura da eterno ritorno.


La verità però è che il problema è lei. Lei, la creatura che riusciva a rendere un'isola felice anche questo vuoto di strade prevedibili e volti stanchi. “Voglio vivere in una casetta in montagna”, mi diceva, “stare lassù gran parte dell'anno, mangiare pane tostato sulla stufetta di ghisa che avremo accanto all'ingresso, e passare il pomeriggio davanti al fuoco, o se fa caldo uscire e respirare l'aria fresca e cogliere fragole di bosco”. Era una prospettiva incantevole. Io mi immaginavo ovviamente che la mattina tra le lenzuola corrugate dal sonno l'avrei presa e portata giù, in fondo al letto, sotto le coperte, in un mondo tutto nostro dove avremmo navigato l'uno nell'altra fino allo scioglimento finale, fino alla riemersione in superficie, dove ci aspettavano il pane tostato e le fragoline di bosco. “E come ci procureremo da vivere?”, chiedevo io sapendo già la risposta ma desideroso di rimettere in scena quella farsa condivisa, quella sceneggiatura di una vita perfetta che era vera fino a che volevamo che lo fosse. “Tu scriveresti, no? E io... Io intreccerei collane di fiori e fabbricherei gioielli, braccialetti e collane con l'ambra dei boschi, con le pietre di fiume, con il quarzo dei sentieri. E scenderemmo in città di tanto in tanto e scambieremmo due parole con i vecchi amici, e poi torneremo su carichi di calore e con un po' di provviste”. “E se non riuscissimo a trovare abbastanza denaro?”, provocavo io per introdurre la sfida e rendere tutto più intrigante. “Torneremmo su comunque, e cacceremmo. No io non potrei, ma lo faresti tu vero? Per me uccideresti un animale?”. “Per te scenderei all'inferno a darei uno schiaffone a Satana”, rispondevo io, assumendomi tutta la fatalità del rischio immenso incorporato in una tale impresa. “Però non potrebbero mancare i libri... e la musica”, aggiungevo dopo le risate suscitate dall'immaginarsi Satana stizzito a morte dopo l'inaccettabile torto subito, “e nelle serate di pioggia e vento metteremmo su un bel disco e berremmo vino rosso”. “Io però bianco”, aggiungeva lei, introducendo una differenza che la rendeva quella che era, che la faceva a me complementare, che la rendeva la più interessante delle creature.

Matteo Castello
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