Una città fantasma fatta di spettri
abitudinari, incastrati in uno scorrere talmente prevedibile da
inibire ogni fantasia, ogni pulsione vitale. È tutto già scritto,
la ruota continua a girare con la stessa cadenza sonnacchiosa,
soffocata dalla stessa cappa opprimente che costringe tutti a raspare
il terreno, ad accontentarsi di piaceri riciclati. Una città dove
ogni slancio speranzoso verso la felicità viene ridotto in polvere
non appena l'illusione sfuma. E non solo: la depressione di
ritrovarsi laggiù in basso, ad annaspare nei rimasugli fetidi delle
ambizioni lasciate a marcire a terra, costringe in uno stato di
desolazione che non ha eguali. A quel punto non c'è stimolo esterno
che fornisca l'espediente per rialzarsi, c'è solo il ricordo di
cos'era e cosa poteva essere, di cosa si è lasciato e di dove ci si
ritrova ora. Le scappatoie sono poche e sono anguste, faticose.
Questa è la mia città e la declinazione di una vita comune passata
tra le sue strade e le sue case. Questo sono io che sono incastrato
qui, con la mia depressione altalenante, fugata soltanto da sporadici
momenti di evasione perlopiù frutto di elaborazioni mentali, di
fantasie inutili. Vivere in una piccola città è come avere una dose
costante di morfina a disposizione: ti culla in un rassicurante stato
di torpore, dove ogni cosa pare chiara e nitida, in un'assenza di
movimento che lenisce e accarezza. Fino a che non finisce l'effetto
della botta. Perché allora ecco che tutto sfuma, si fa confuso, il
paragone con l'esterno brulicante rende la notorietà dei gesti
quotidiani una tortura da eterno ritorno.
La verità però è che il problema è
lei. Lei, la creatura che riusciva a rendere un'isola felice anche
questo vuoto di strade prevedibili e volti stanchi. “Voglio
vivere in una casetta in montagna”, mi diceva, “stare
lassù gran parte dell'anno, mangiare pane tostato sulla stufetta di
ghisa che avremo accanto all'ingresso, e passare il pomeriggio
davanti al fuoco, o se fa caldo uscire e respirare l'aria fresca e
cogliere fragole di bosco”. Era una prospettiva incantevole. Io
mi immaginavo ovviamente che la mattina tra le lenzuola corrugate dal
sonno l'avrei presa e portata giù, in fondo al letto, sotto le
coperte, in un mondo tutto nostro dove avremmo navigato l'uno
nell'altra fino allo scioglimento finale, fino alla riemersione in
superficie, dove ci aspettavano il pane tostato e le fragoline di
bosco. “E come ci procureremo da vivere?”, chiedevo io
sapendo già la risposta ma desideroso di rimettere in scena quella
farsa condivisa, quella sceneggiatura di una vita perfetta che era
vera fino a che volevamo che lo fosse. “Tu scriveresti, no? E
io... Io intreccerei collane di fiori e fabbricherei gioielli,
braccialetti e collane con l'ambra dei boschi, con le pietre di
fiume, con il quarzo dei sentieri. E scenderemmo in città di tanto
in tanto e scambieremmo due parole con i vecchi amici, e poi
torneremo su carichi di calore e con un po' di provviste”. “E se
non riuscissimo a trovare abbastanza denaro?”, provocavo io per
introdurre la sfida e rendere tutto più intrigante. “Torneremmo
su comunque, e cacceremmo. No io non potrei, ma lo faresti tu vero?
Per me uccideresti un animale?”. “Per te scenderei
all'inferno a darei uno schiaffone a Satana”, rispondevo io,
assumendomi tutta la fatalità del rischio immenso incorporato in una
tale impresa. “Però non potrebbero mancare i libri... e la
musica”, aggiungevo dopo le risate suscitate dall'immaginarsi
Satana stizzito a morte dopo l'inaccettabile torto subito, “e
nelle serate di pioggia e vento metteremmo su un bel disco e berremmo
vino rosso”. “Io però bianco”, aggiungeva lei,
introducendo una differenza che la rendeva quella che era, che la
faceva a me complementare, che la rendeva la più interessante delle
creature.
Matteo Castello
Matteo Castello
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