Paimpol


Da questo paesino partivano i pescatori per l’Islanda e molti non tornavano, lo dice un pannello sulla darsena. Dal porticciolo di Paimpol l’orizzonte è fitto di alberi maestri che ondeggiano sull’acqua calma. Le casette bretoni sono composte da mattoni e intonaco. I loro tetti scuri d’ardesia creano una zigrinatura, una cornice tra la terra e il cielo che invita a rimanere con lo sguardo ancorato. Nei porti, il mare è sempre al di là. A bordo, il cielo sarà l’unico scenario e le case un ricordo. 

Dovrò aspettare ancora. La ragazza non è stata precisa sull’ora, ha solo detto “nel primo pomeriggio.” Porta con sé la proposta su cui mi sto arrovellando da mesi. Ordino ancora un cidre. Qui lo servono in tazze di ceramica che piacciono molto ai turisti. È buono, acido e dissetante, non lascia la pesantezza tipica della birra. È la fine dell’estate, per gli altri. Non per me. La luce è diafana e accecante, ma non schiaccia come a luglio o ad agosto. Ieri ero al Beg Bilfod, con il suo faro ottocentesco che vigila sugli isolotti che sembrano il dorso di una creatura marina riemersa. Lo sguardo si riempie di luce mentre segue le scogliere irte che si infossano nel mare. Ho ancora la sensazione del vento sulla faccia, qui al mio tavolino. Ho un brivido, mi stringo nella giacca a vento blu. 

La verità è che questo viaggio lo sto facendo solo per lei. Tutto il resto, fino a qui, è stato solo un’attesa, un riempire le pause. Quello che so della ragazza è che si chiama Constance, ha i capelli castani, corti, e conosce un armatore. Mi ha parlato di come il mare ti cambia, dopo un po’, di come l’ha cambiata, ormai. Fino a pochi giorni fa stava solcando le onde diretta a Brest. “Ma non vediamoci lì, è un casino. Paimpol è meglio, non si dà troppo nell’occhio.” 

Sono stanco. Stanco del ritmo che ho dato alla mia vita. Una vita di terra, di pianura, di tragitti ripetitivi, di pochi scossoni, di scarsa improvvisazione. Dovrei tornare a casa tra qualche giorno, ma non ne ho voglia. Per questo sto per incontrare Constance. Perché non ho voglia di tornare a casa. Quando appare la riconosco subito. Si siede al mio tavolino, fa un gesto e la cameriera ammicca. Non ci salutiamo, ci guardiamo soltanto. Lei sorride appena, scrutandomi con gli occhi ridotti a due fessure dalla luce obliqua del settembre bretone. Ha un cappellino che le schiaccia i capelli sulla fronte. Ha più rughe di quante ne dovrebbe avere una della sua età. La pelle cotta dal sole. 

“Si partirebbe dopodomani. Mattina presto” mi dice sorseggiando la sua tazza di cidre appena arrivata. “Armel non ha problemi a imbarcarti, ha già un permesso turistico per i primi giorni, poi in qualche modo si farà.” 

“Come ti dicevo, però, non sono pratico” faccio io. 

“Quello non è un problema. Imparerai. All’inizio devi solo abituarti al mare, poi tra un mese ti renderai utile per davvero. Sarà un lungo viaggio, devi solo essere pronto a questo, perché una volta partiti non si torna indietro.” 

“Ci sarai anche tu?” chiedo rendendomi conto che è una domanda sciocca. 

“Per un po’ sì,” mi rassicura Constance con un tono di voce soffice. Lascia la tazza e mi sorride, poggiando il mento su una mano aperta. “Almeno fino al Mare del Nord. Poi non so.” Ha assunto un tono sbarazzino, come se si fosse sciolta. Come se si stesse abbandonando a questo posto mite che pare cullarci. 

Finiamo il cidre e non servono altre parole. Il sole è tornato a scaldare la pelle, la brezza che arriva dalla Manica si è placata e lei ha chiuso gli occhi, come se stesse meditando, le dita strette attorno alla tazza vuota di ceramica. Vedo le sue pupille muoversi dietro le palpebre, all’inseguimento di qualche pensiero che guizza poco sotto la superficie. 

Dopodomani si parte, penso io. E mi sento sommerso da un mare di possibilità di cui non riesco nemmeno a tratteggiare i contorni. Partire e basta. Un salto imprevisto, uno stacco netto. A questo punto il dopo non mi interessa più, sento l’abbraccio di un presente che si sta estendendo secondo traiettorie nuove, sconosciute, inverosimili. Chiudo gli occhi anche io, sento i raggi del sole sulla faccia, il torpore del pomeriggio che avanza, la sua voce che piano suggerisce “prendiamo un altro cidre?”
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Chissà se i gatti provano la stessa malinconia che sta incrinando le mie fibre, ora

Chissà se i gatti provano la stessa malinconia che sta incrinando le mie fibre, ora. Il mio gatto, Cilum, detto Cili, sta guardando un punto indefinito all’orizzonte, adagiato su un cuscino logoro sopra una vecchia sedia di legno, messa lì per lui e per lui soltanto. Quando chiude gli occhi lo fa lentamente, con un certo languore, come se fosse un movimento consapevole. E proprio in quel momento, mentre indugia assorto a palpebre serrate, lo immagino pensare pensieri tristi. Lo sto fissando da qualche minuto. Tutt’a un tratto tende le orecchie, lo sguardo vivo. Deve aver sentito qualcosa, un cane che abbaia, un’auto che passa, fuori. Dopo poco gira la testa e mi scruta con quell’espressione vacua e enigmatica che sanno assumere solo i gatti. Chiude ancora una volta gli occhi per poi acciambellarsi sul cuscino, indifferente. Per lui la questione può dirsi chiusa, ma io sono ancora tutto rivolto verso questa creatura così misteriosa. Mi chiedo come sia possibile essere due entità tanto separate, senza che esista un contatto, un appiglio. Respira delicatamente, il pelo si solleva appena, la sua struttura organica è ridotta a poche funzioni elementari. 

Dopo un paio di volteggi sgraziati una mosca si posa sul suo naso. Sento un leggero solletico mentre il gatto si scuote appena per sbarazzarsi dell’insetto, che vola altrove in uno zig-zag d’ali. Che strano. Mi trovo all’improvviso di fronte a me stesso. Lo spazio intorno ha assunto una luminosità sfumata, spenta, ma fitta di dettagli. Vedo il pulviscolo che aleggia vorticoso nell’aria. Io sono seduto a gambe incrociate, lo sfondo alle mie spalle è sfocato. Mi stropiccio gli occhi, mi vedo mentre lo faccio, come se mi osservassi dall’esterno. Eppure mi sento, sento di essere incarnato in qualcosa, percepisco i miei contorni soffici di pelo, l’umidità del naso. Mi lecco una zampa per poi passarla sul muso. 

L’umano. Ha l’espressione di uno che non dorme come si deve da un bel po’. Sta lì, accartocciato, senza un minimo di eleganza, con i capelli spettinati e un’espressione imbambolata, come se ci fosse chissà cosa da guardare, da scoprire. E pensare che è gentile con me. Dovrebbe essere altrettanto gentile con sé stesso. Torno a nascondere il muso nel pelo soffice. Mi piace il mio odore. A palpebre chiuse restano solo i suoni esterni, di fronte agli occhi un campo di macchioline che sciamano come i moscerini della frutta. Formano scie che si spalmano su questo velo scuro e pian piano sbiadiscono, mentre là fuori lui continua a guardarmi e interrogarsi sulle mie emozioni. Non sono sempre felice, sarei disonesto ad affermarlo. Ma quando tiro fuori le unghie e scortico la corteccia del pruno sento le endorfine arrivarmi fino alla punta della coda. E quando inseguo una lucertola fino allo sfinimento non potrei sentirmi più vivo. Mi chiedo come possa l’umano passare il suo tempo a non fare nulla, a non arrampicarsi sugli alberi o cercare femmine quando è il periodo giusto. 

Ed ecco di nuovo quel suono, come un lontano miagolio. Torno a scrutare oltre il vetro con gli occhi spalancati. Là fuori c’è qualcosa che mi chiama. So che oltre la strada, oltre le automobili che sfrecciano rumorose, ecco là fuori, da qualche parte, c’è dell’altro. Che cosa sia non lo so. Però non riesco a superare la linea invisibile che separa il meleto dall’asfalto, non riesco a non tornare ogni volta qui, su questa sedia, a farmi assorbire dal buio e dalle macchioline di colore. E sempre, anche quando scarnifico la corteccia, mi prende un lieve sconforto, se così si può dire, generato dalla nostalgia di qualcosa che non conosco ma sento presente. Come una memoria dal futuro

Riabbasso le palpebre. Sento un solletico. Questa mosca la deve smettere di ronzarmi attorno. Con uno scatto felino mi tendo tutto e provo a mangiarmela. 

Ho un sussulto, qui sul divano. Non mi aspettavo questo impeto. Mi sento intorpidito, devo essermi appisolato. Ero così assorto nell’osservazione del gatto che mi è sembrato di perdermi nella sua testa. Mi passo una mano tra i capelli, guardo fuori dalla finestra. Si è fatta sera, così, da un momento all’altro. L’aria si sta facendo rarefatta e opaca, mentre la luce piega le tonalità dei colori su tinte livide che mi fanno sentire un gusto amaro in bocca. Mi rendo conto che dovrei alzarmi e fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non sono un gatto, io. Mi sollevo dal divano e il peso che sentivo in testa scende giù nello stomaco accompagnato da una certa vertigine. Il gatto schiude gli occhietti e mi guarda severo. Mi sembra, anzi sono sicuro, che mi stia giudicando. Se potesse parlarmi, forse, mi esorterebbe ad uscire da questa casa e a superare il meleto, andando a vedere cosa c’è oltre quelle maledette macchine che scorrono e rumoreggiano senza sosta.
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Questa volta cade

Questa volta cade. 

L’aereo traballa e scuote le anime a tutti. Per un attimo siamo un concentrato di terrore. Sento che perdiamo quota quel tanto che basta per rimescolare la colazione nello stomaco. Poi il volo si assesta e riprende stabilità. La gente sorride, qualcuno fa lo spaccone. Però ci siamo tutti cagati sotto, perché nessuno pensa mai che si possa finire così, da un momento all’altro. E invece, a volte, si finisce così, da un momento all’altro. Ho stretto i poggiagomiti più del dovuto, ho le dita indolenzite. Guardo fuori, controllo il respiro e rimetto le cuffiette. C’è un mare di nuvole che sembrano colline. Non ascolto mai la musica durante il decollo perché non voglio perdermi nessun dettaglio in un momento tanto importante. Non so come faccia la gente ad addormentarsi appena salita a bordo. Ma davvero sono tutti così insensibili al loro destino, a quello che potrebbe capitare a loro insaputa? 

Hanno annunciato che è di nuovo possibile sganciare le cinture di sicurezza. Non lo faccio. Sono ancora teso, anche se il motivo non è più il rischio di precipitare. Sono irrequieto perché tra poche ore sarò seduto ad una scrivania a parlare in una lingua straniera. Non è tanto il colloquio di lavoro a mettermi ansia, certe cose le so gestire bene. È più che altro la possibilità che vada tutto secondo i miei piani a darmi una scossa lungo la spina dorsale. Mi sono preparato a questo momento con grande dedizione. Giornate regolari, orari serrati, pochi, pochissimi strappi alla regola. Adesso però mi rendo conto che coltivare un obiettivo è più soddisfacente che raggiungerlo. Nel migliore dei casi mi troverò a star seduto per otto ore al giorno davanti a uno schermo in una città straniera, e dopo qualche mese di eccitazione anche questa novità diventerà ordinaria amministrazione. 

Il pilota riesce a far scivolare l’aereo sulla pista senza nemmeno uno scossone, come per scusarsi dello spavento di un’ora fa. Grazie, dal profondo del cuore. 

Vienna mi accoglie sempre ostentando una certa durezza, nonostante il clima mite della primavera. Nonostante la vita universitaria attorno a Votivkirche, gli aperitivi lungo il Donaukanal, le passeggiate al Prater, le colline verdeggianti sopra Grinzing, questa è una città dura, austera, che sorride poco, o così mi è sempre sembrato. Lo sguardo categorico dei palazzi lungo la Ringstrasse, o i monumenti imperiosi del centro, impongono il loro primato sopra ogni relazione, incastonando nello spazio le pose, i movimenti dei passanti. Come in una morsa. Anche i secessionisti avevano il loro mausoleo neoclassico, in fondo, e in loro dominava il primato della forma. E che dire di Strauss? 

Questa volta, però, è la periferia che mi aspetta, e quella è uguale in ogni città europea. Percorro un lungo vialone che si lascia alle spalle ogni sfarzo mettendo in fila basse casette a schiera e capannoni commerciali. Lavorerò qui, se passo il colloquio. Ho già avuto modo di parlare con il responsabile della filiale in un paio di call, tutto è andato bene. Oggi incontrerò il direttore generale, un signore sui cinquant’anni che vive a Berlino e viaggia molto. Le porte scorrevoli della sede aziendale scorrono e dentro fa fresco e c’è un profumo gradevole, indecifrabile, come di macchina nuova e dopobarba. La segretaria mi fa cenno di attendere su una poltroncina in finta pelle color crema che stride all’attrito del mio corpo. Incrocio le gambe, sento un leggero odore di sudore e tasto sotto le ascelle senza farmi notare. Sono sudato. Dovrei andare in bagno e magari fare anche la pipì, così da allentare ogni tensione. Non faccio in tempo ad alzarmi che appare un uomo alto, vagamente sformato sui fianchi, con i capelli biondi tagliati corti e una camicia senza cravatta. Ha una faccia rossa e tonda che ispira simpatia. Infatti sorride e mi stringe la mano. 
Lei deve essere il nostro uomo, mi fa. 
Spero proprio di sì, rispondo io. 
Il suo inglese è un tantino spigoloso sugli angoli, il mio morbido nelle consonanti. Ecco le differenze nazionali raggrumate in una questione di sfumature. 

Ci avviamo verso una sala spaziosa, con grandi vetrate che danno sul cortiletto interno. Prima di entrare passiamo accanto a una porta dove è ben visibile l’effige stilizzata di un ometto. Avrei fatto meglio ad andare in bagno. Quando ci sediamo la cintura preme sul ventre e mi accorgo di avere la vescica colma.
Ha fatto un buon viaggio? chiede. 
Si, anche se per un attimo ho creduto che non saremmo mai atterrati, rispondo. 
Ha paura di volare? Sa, è una cosa comune. Ma ci si abitua a tutto, fa lui guardando l’ora. 
La responsabile del personale, una donna bellissima che avrà dieci anni meno di me, compare alle nostre spalle, chiedendo scusa per il ritardo. Mi devo alzare per stringerle la mano. Ha una stretta vigorosa che sostengo trattenendo un’espressione di sconcerto. Sono al limite. E sono sudato. 
Ora che ci siamo tutti, riprende il direttore con un gran sorriso, possiamo iniziare. Corinne, vuole aprire le danze?

Mentre lei snocciola informazioni sul piano di ampliamento dell’organico e le strategie di networking con le realtà innovative di Vienna, io sono tutto concentrato sul basso ventre. Stringo le pareti pelviche e mi deve sfuggire una smorfia, perché il direttore mi guarda e mi chiede se vada tutto bene. 
Certo, certo. Prego, continuate pure, dico impegnandomi per eliminare il tremolio della voce. 
Non posso chiedere di andare in bagno, non siamo alle scuole elementari. 
Quando Corinne finisce di parlare il direttore sembra soddisfatto. 
Lei parla tre lingue, dico bene? mi chiede. 
Sì, è corretto. Mi sono specializzato nel Regno Unito, taglio corto. 
Ma conosce anche il francese, giusto? Ci dica di più sul suo profilo professionale. La conoscenza delle lingue è un plus significativo, ma lei è un ingegnere altamente specializzato a quanto mi ha comunicato il dottor Steiner. 
È esatto, bofonchio. Avevo preparato una lunga relazione sulla mia esperienza nel campo del cloud computing e sulla creazione di reti di scambio tra realtà innovative, ma non ce la posso fare. Sono un bagno di sudore. 
Lei non sta bene. Le porto dell'acqua. 
Il direttore riempie un bicchiere servendosi di una caraffa posta al centro del tavolone al quale siamo seduti. Il liquido scroscia rumorosamente e un po’ d’acqua straborda e bagna la superficie di legno smaltato. Quando mi porge il bicchiere sento che sto per cedere. 
Mi scusi, dov’è il bagno? chiedo disperato. 
Lo dicevo che sta male, asserisce convinto il direttore. 
No, no, sto bene. Devo solo fare pipì. 
La donna abbassa lo sguardo, piena di giudizio. 
È proprio qui fuori, squittisce il direttore facendosi serio. 

In un attimo sono fuori, corro letteralmente al cesso. La zip non si apre come dovrebbe e per un secondo penso che finirà malissimo. Poi, però, tutto scorre. Un flusso continuo, infinito, liberatorio. Non sono mai stato così bene mentre il sudore sulla schiena si condensa in goccioline fredde catturate dal tessuto della camicia. Ho la percezione di essere stato dentro almeno dieci minuti quando, finalmente, esco. Rinato. 

Apro la porta della sala riunioni e gli occhi severi dei due mi trafiggono. Seduto al tavolo, al mio posto, c’è un giovane con la barbetta rossa, con le gambe incrociate e l’orlo dei pantaloni che lascia intravedere dei calzini blu elettrici. 
Le faremo sapere, ora siamo nel pieno delle selezioni, mi inchioda il direttore. 
Nemmeno a dirlo, saluto e esco. Prima di varcare le porte scorrevoli la segretaria mi guarda e sento che capisce. Cosa, non lo so. 

Credo che andrò in centro, cercherò una stanza lì. Disdico la prenotazione nell’hotel vicino all’aeroporto, anche se non ho diritto al rimborso. Passeggerò tra i palazzi del centro, mi farò portare in alto dalle vertiginose torri della Cattedrale di Santo Stefano, mi perderò tra i turisti, facendomi inglobare dallo spazio, dall’ordine centenario dell’Impero che continua a impartire il suo sguardo severo sui negozi, sui caffè storici. Poi mi fermerò in un dehors a caso e mi berrò una birra o due. Domani si torna a casa, se tutto procede secondo i piani.
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Un uomo nel bosco

Sto mangiando un burger di carne sintetica. Lo addento come fosse il corpo di una preda appena cacciata. Solo così riesco a illudermi di stare mangiando davvero qualcosa. Ho l’impressione di perdere me stesso quando ingerisco questi prodotti di cui mi sfugge tutto: chi li produce, come sono fatti, di cosa sono fatti. È più facile quando le cose vengono fuori da un corpo. Da un culo di gallina, ad esempio. Ritrovo parti di me solo se penso al perché esista questa poltiglia che sto mangiando con così poca convinzione. Ci sono anche io, sono lo scarto di tutta la lunga catena di ragioni che hanno portato alla creazione di ciò che ora sto mischiando in bocca. I miei pensieri sono come una digestione all’incontrario. Alla fine, come si dice, sono quello che mangio, no? Il ciclo si chiude. 

“Va tutto bene? Che hai?”. 

Fino a poco tempo fa ero nel bosco. Il tragitto che dal lavoro mi porta a casa passa da lì. È come attraversare mondi separati. L’officina si trova proprio di fronte alla strada che taglia in due il paesino, e partecipa da decenni al moto incessante delle auto che gorgogliano e tossiscono, al fluire dei passanti, allo sbraitare del predicatore che di tanto in tanto si ferma all’incrocio con i sui proclami e la sua campana rutilante, che a volte pare proprio lo schiocco delle labbra di dio. E poi c’è il curvone che porta all’autostrada, e quel gomito di alberi che spezza la civiltà. Addentrandosi nel bosco di betulle spunta anche qualche quercia. E cespugli, rovi, cose così. Casa mia sta dall’altro lato, oltre l’intrico di cortecce e arbusti. C’è giusto una traccia scavata prima da qualche animale, poi da me. Da casa mia si sente appena il sibilo del disordine che vien fuori dalla civiltà che non fa altro che scorrere, scorrere, scorrere. 

“C’era un uomo nel bosco”. 
Lo penso e lo dico nello stesso esatto momento. Forse non era il caso. Nella stanza dove mangiamo c’è molta luce, fino a tardi. È esposta bene, questa stanza, dice sempre lei. Ora però c’è come un’ombra.
"Strano, non c’è mai nessuno nel bosco. E che ci faceva lì?”. 
Prendo fiato, fisso il piatto ancora mezzo pieno. 
“Non faceva niente. Cioè. Era immobile, stava vicino a un albero. Appoggiato contro un albero. E si guardava le mani. Poi mi ha visto anche lui. Ci siamo incrociati all’improvviso, non mi aspettavo di incontrare qualcuno. Nessuno passa mai nel bosco, sai. Nemmeno lui se lo aspettava, perché ha avuto un sussulto. Ha fatto un passo indietro poi se ne è stato lì fermo”. 
“Come, si guardava le mani?”. 
La luce della sera sta facendo sfumare i contorni delle cose. L’aria sa di quel qualcosa di precisamente vago e rassicurante sprigionato dalla cottura della cena. Un profumo appetitoso, noto, che ci riconnette con la nostra natura più profonda. 

“Si guardava le mani perché erano sporche. Non solo le mani. Anche la maglietta. Era… era tutto imbrattato. Sembrava non credere a quello che vedeva. Poi mi ha guardato e”. 
“E cosa?”. 
“E si è fatto serio, ma serio nel senso che non sembrava provare nulla. Sì, ha avuto quel sussulto, ma poi è stato come se si fosse risvegliato da un sogno”. 
“Oddio. E tu cosa hai fatto?” .
“Io, io ho continuato a camminare”. 
“Di cosa era sporco? Mi stai facendo spaventare”. 
“Non lo so di cosa era sporco. Rosso, rosso scuro”. 
“Era sangue? Era ferito? Magari è ancora qui intorno”, dice alzandosi in piedi, visibilmente preoccupata. La sua testa sta elaborando tutte le informazioni e i possibili scenari. 
“Non era ferito. Non sembrava ferito, di questo sono abbastanza sicuro”. 
“E allora di chi era il sangue?”. 
“Non lo so, non suo. Scusa. Sul momento mi è sembrata solo una cosa strana, sai. Avevo fretta di arrivare a casa”. 

Rimestando tra i pensieri mi chiedo se quello che sto raccontando è davvero successo. Provo a ripercorrere la vicenda e l’unica percezione che mi collega direttamente a quanto dico di aver vissuto è una sorta di repulsione, come quando si vede un ragno grosso e peloso e ti vengono i brividi, ti stride tutto, dentro. Ricordo la mia voglia di allontanarmi, di lasciarmi alle spalle una situazione che non aveva niente a che fare con me, con il mio mondo, con la mia giornata, con il mio bosco. Ho fatto in modo di non guardare più del dovuto, anche perché avevo già visto troppo. L’uomo mi aveva seguito con lo sguardo, l’avevo percepito dal tendersi della pelle sulla nuca. Io non mi ero voltato. Avevo cercato di respirare il meno possibile per non affollare l’udito. Nessun passo dietro di me, nessun rumore allarmante. Solo la repulsione. Quella sensazione l’avevo chiusa fuori dalla porta, una volta rientrato in casa. Mi sono tolto i vestiti, mi sono fatto una doccia e ho iniziato a mangiare. Poi però lei mi ha chiesto come stavo. Ed eccoci qui. 

“Ma perché non hai avvisato qualcuno? Perché non hai fatto qualcosa?”. 

Io non lo so. Lei sta girando per casa cercando di capire cosa fare. Poi sparisce dalla visuale e sento che rovista, prende qualcosa. Il telefono, certo. Guardo il piatto. Il burger ha rilasciato un po’ di liquido sul fondo. Ho la forchetta ancora in mano, la affondo nel corpo morbido. Porto il boccone alle labbra. Annuso. Sa di buono. Infilo in bocca e mastico. Scompongo le fibre vincendo la loro vana resistenza. Mi cerco ad ogni morso, ma sento solo che più scompongo questo qualcosa che ho in bocca, più sfuma la possibilità di una soluzione all’enigma. Chi sono? Perché diamine non ho fatto qualcosa? Mastico, mastico, ma tutto si interrompe nell’atto più primordiale, più basico. Estraggo sapore, perdo senso. Perché non ho avvisato nessuno? 

Ingoio a stento. Perché non sapevo, perché non sapevo! Non sapevo cosa fare, da dove diavolo arrivava quel tipo? Perché, chi l’aveva messo lì sulla mia strada? E perché doveva essere pure sporco di sangue? Sangue non suo perché mica sembrava star male. Non mi ha chiesto aiuto, mi ha solo puntato gli occhi addosso. E io ho continuato a camminare, e allora? Dovevo tornare a casa, dove conosco le cose. So cosa c’è in casa, so chi c’è dentro. Mastico un altro boccone, ma non va giù. Cosa avrei dovuto fare? Lei, di là, sta parlando con qualcuno. Sento che racconta più o meno quello che le ho detto poco fa. Ripercorre la vicenda mentre io sto immobile a masticare. La persona con cui sta conversando riesce a farla calmare un po’, ora parla più lentamente e continua a dire “sì, sì, va bene, chiudo a chiave, sì”. Da’ l’indirizzo, “fate presto”. 

Come posa il telefono io butto giù deglutendo sonoramente. Era l’ultimo pezzetto, nel piatto rimane solo il sugo brunastro. Lei riappare. 
“Sta arrivando la polizia”. 
La guardo un attimo, senza capire precisamente cosa voglia comunicarmi. Ci penso un attimo, rigirandomi la lingua in bocca. 
Riesco a dire, con un filo di voce, “non faceva poi tanto schifo”.
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Simonetta

Il personaggio di Simonetta è tratto da I piccoli maestri di Luigi Meneghello. Un romanzo meraviglioso che inizia cosi: “Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l’impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana.” 

Ho immaginato di dedicare un po' di spazio a lei,  a Simonetta, per vedere cosa sarebbe successo.
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Lui aveva tanto insistito per portarla lassù. Lei, come mossa da un’obbligata condiscendenza, visti i fatti vissuti, visto il tempo spartito, aveva accettato di accompagnarlo. Gli teneva dietro con quel senso di responsabilità sodale che non sentiva appartenerle fino in fondo. Lo conosceva appena. Mentre camminava arrancando tra i cespugli irti e i sassi sparsi si osservava dall’esterno, come in uno sceneggiato, come in un romanzo, e così si figurava le mosse giuste da fare, quelle più convenienti al plot, allo sviluppo del personaggio. Per questo l’aveva seguito, sembrava la cosa più opportuna. Anche se non ne aveva nessuna voglia. 

Erano stati giorni trepidanti, con gli inglesi a Padova e i nazifascisti che se la davano a gambe come dei conigli, dopo aver contaminato quei luoghi con la loro sozza, bestiale stupidità. Avevano continuato ad ammazzare anche dopo la fine di tutto, i tedeschi, come cani rabbiosi incattiviti dalla catena sempre più corta. Si era sparato fino all’ultimo e, come se non bastasse, lui ora voleva recuperare proprio un fucile, il suo parabello. Le sembrava buffo quel nome così privo di fantasia, così ready to use. Parabello, ma bon! Non a caso erano stati i tedeschi ad aver dato quel nome alle loro pistole automatiche. A lei invece piacevano i nomi roboanti di certe automobili, così sofisticati ed esotici. Gli inglesi per Padova si erano portati appresso, assieme al rombo dei carrarmati, proprio quel linguaggio scintillante che tanto cozzava contro la rozza sbrigatività degli uomini delle sue parti, gutturali e come offesi dal dover proferire troppe parole. “Hey you, girl, would you like a real one?”, le aveva chiesto ammiccando un soldato. Si riferiva alle sigarette. Anche quelle sembravano sdrucite, quelle paglie improvvisate che di tanto in tanto fumava con i suoi compagni. Aveva detto di sì solo per poter rispondere “yes, thank you”. 

Lui invece era un gran parlatore, a volte non la smetteva più di raccontare, di far sofismi. Poi, d’un tratto, si ammutoliva colto da un ricordo, da un pensiero, da un tonfo del cuore. Ogni tratto di terra brulla era legato a una fuga, a un accampamento di fortuna, a qualche insegnamento da trarre sulla vita, sulla nazione, sul futuro. Mentre lui parlava, lei pensava. Aveva passato l’ultimo anno a sostenere i partigiani tra i paesini del vicentino spostandosi di qua e di là con la sua bicicletta, a creare contatti, a consegnar missive. Gli uomini, poi, facevano il resto. Gli atti di valore. Simonetta ne aveva fatti molti di atti di valore, ma aveva l’impressione che in fondo non fossero tutto questo granché agli occhi dei combattenti. I combattenti, quelli veri, si limitavano a riconoscerne l’utilità, magari intenerendosi un pochino pensando alla mamma e alla sorella, e bon. Un fucile l'aveva imbracciato solo gli ultimi giorni, più per figura che per altro. Perciò le era presa la voglia di sparare dei colpi: così, per sapere cosa si prova. 

Anche per quello era salita in montagna. 

L’aveva convinta a dormire in tenda, perché il punto preciso non si trovava e ci sarebbero voluti giorni. E anche perché voleva starle vicino, il più possibile. Simonetta mal sopportava quella brama di intimità, nonostante l’idea l’avesse intrigata, all’inizio. Lo ricordava trionfante, certo meno marziale dei militari inglesi, vestiti di tutto punto, mentre i "bandits” portavano camicie logore, capelli lunghi e sfatti, pantaloni alla zuava fuori taglia. Eppure erano belli, fieri, tenaci. Le era quindi preso il desiderio di lasciare la città per non perdersi gli ultimi vapori della vita avventurosa che già sfumavano dai racconti e che leggeva sui volti induriti dei giovani armati che, nonostante la vittoria, ancora si atteggiavano con le pose della clandestinità. 

Aveva lasciato il parabello in una fenditura del terreno dove si era rifugiato durante una rappresaglia. Sembrava impossibile trovare il posto, lo spazio era immenso e indistinto. Simonetta continuava a seguirlo perché ormai non poteva mica tornare indietro. Fino a che non si trovava l’arma ci sarebbero state altre notti passate vicini, mentre fuori scrosciavano i temporali e faceva freddo, e lui non aveva un buon odore, e lei si sentiva sporca, inelegante, stanca, inutile, annoiata. L’esaltazione da bambino mentre raccontava le sue cose di guerra, prendendosi un po’ in giro ma forse soltanto per amplificare l’effetto retorico delle sue parole, la intenerivano e indispettivano allo stesso tempo. L’istinto sarebbe stato di tenerlo a bada, dirgli di star buono, calmo, poggiargli una mano sulla testa e rassicurarlo. Rassicurarlo, sì, perché dopo una guerra ce ne sarebbe il bisogno. Lascia stare il fucile, le pallottole, gli atti di valore, stenditi e dormi, gioca, stai buono, calmo. 

Era anche sua, quella vittoria? Lo pensava mentre lui si esaltava una notte di temporale, sparando all’impazzata contro i tuoni e il vento dopo il ritrovamento incredibile dell’arma. Credeva che Simonetta dormisse, ma lei lo sentiva benissimo. Pensava che cosa ne avrebbe tratto, lei, dalla Liberazione. Gli atti di valore sarebbero continuati a rimaner affar loro? Loro, che parlavano, trigavano, facevano, disfacevano, tiravan su gran discorsi, piani, progetti, litigavano e si sentivano fratelli, tutti quanti. E noi?, pensava Simonetta, noi portiam le missive, facciamo le ancelle e veniam dietro. E basta? That’s all? 

Per questo voleva sparare. Sentiva che la sua vita non l’avrebbe vissuta stando alla cavezza. Voleva dirigere, godere delle cose belle, mandare avanti qualcosa di suo. Però, prima di tutto, bisognava imparare a sparare. Per quello lo aveva seguito. E così, una volta impugnata l’arma aveva esploso una ad una le ventuno palle. Ventuno, come la sua età. I primi colpi con le mani di lui strette attorno. Il botto, l’emozione, il tremore di immaginare lo stesso gesto nei momenti di lotta. Sparare a qualcuno. Come è possibile? Poi, man mano che le palle sparate erano diventate dieci, undici, dodici, quelle mani avevano lentamente alleggerito la presa. Non c’era niente di importante in quell’esercizio figurativo, per lui. Forse anche quella era solo un’altra scusa per tenersela appresso. Simonetta, però, gli ultimi colpi gli aveva sparati da sola, mirando bene, facendo attenzione, controllando il respiro. 

L’ultimo colpo, ne era sicura, aveva centrato in pieno il bersaglio.
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Sanremo 2025, aka "del cul far trombetta"


Sanremo è uno spettacolo indigesto sotto molti punti di vista. Un ascolto ai brani in gara però ho voluto darlo. Queste sono le mie scarne impressioni, in ordine sparso.
La media del Festival della canzone italiana, comunque, si assesta su un magro 4,7. Niente male davvero.

Achille Lauro – Incoscienti Giovani (5,5/10) 

Scuola romana in salsa sanremese (senza sorprese). Il pezzo procede privo di colpi di scena, optando per una monotonia sonnacchiosa levigata da scialbe partiture d’archi che non spiccano il volo nemmeno quando potrebbero. Il ritornello imprime una piacevole svolta melodica senza però crederci fino in fondo. Poi arriva il sax che fa molto urban, così, come complemento. Lo preferivo quando faceva il pazzerello da prima serata tivvù. 

Marcella Bella – Pelle Diamante (2/10) 

I russi ci adorano per queste oscenità. 

Elodie – Dimenticarsi alle 7 (5,5/10) 

In fondo sono stati artisti come Elodie e Mahmood ad aver contribuito maggiormente al mutamento del gusto di uno dei pubblici più imbolsiti e conservatori del mondo. Qui Elodie fa il suo mestiere, senza particolari guizzi nella scrittura: base electro che fa da preludio agli archi leziosi del ritornello, colorati per fortuna dalle modulazioni di synth. Nessun vero colpo di scena, brano piacevole ma incapace di spiccare il volo. 

Modà – Non ti dimentico (3/10) 

Vabbè bisogna far sentire accettato anche il pubblico di Maria De Filippi. 

Serena Brancale – Anema e core (7/10) 

Interessante il tripudio tropical-house di Serena Brancale. Un brano in costante movimento, con il suo attacco sinuosamente etno-lounge che evolve in un tripudio di percussioni, torpori balearic e basso groovy. E finalmente anche gli arrangiamenti orchestrali – impegnati in volteggi arabeggianti - sembrano funzionali alla resa armonica del brano e non una mera giustapposizione messa lì a caso. Sorpresa. 

Giorgia – La cura per me (4,5/10) 

Giorgia scrive lo stesso pezzo da sempre, dedicando ogni sforzo alla prestazione vocale, al climax verticale, con uno sviluppo compositivo sapiente ma tutto sommato ordinario. La musica? Un mero accompagnamento. Potrebbe cantare qualsiasi cosa, in fondo. Ah ma come canta bene, qualcuno l’ha già detto? 

Clara – Febbre (4/10) 

Il problema è che il genere di Mahmood e Elodie è passato nel giro di un secondo da novità a standard trito e ritrito. Lo schema compositivo è sempre quello, una copia carbone di una copia carbone. Pulsazioni torbide da basso ventre su cui si innesta la pedante dizione cadenzata di una voce forgiata da un qualsiasi vocal coach per aspiranti vincitori di X Factor. E poi la solita orchestra laccata. Uff. La noia assoluta. 

Lucio Corsi – Volevo essere un duro (7,5/10) 

Quella di Lucio Corsi è una canzone. Ha un testo, uno sviluppo, diversi momenti di estro, una dinamica melodica tutto fuorché banale, un equilibrio espressivo tra musica e testo dove ogni componente ha il suo giusto spazio (e se un brano tende all'assolo di chitarra siamo sempre sulla strada giusta). Piano rock anni settanta, pose glam, canzone d’autore. Qui siamo ad un altro festival. 

The Kolors – Tu con chi fai l’amore (3/10) 

La ricerca del tormentone estivo a tutti i costi. Fare il sonoro degli stacchi pubblicitari per le estati italiane come ambizione di vita. Ci sanno fare i Kolors, ne sanno a pacchi, hanno un futuro da gelatai per interposta persona assicurato. Anche a causa loro i russi ci adorano. 

Olly – Balorda nostalgia (3/10) 

Un titolo che è un programma. Un brano che è una merda. 

Coma_Cose – Cuoricini (5,5/10) 

I Baustelle che incontrano Albano e Romina (ma anche i Dari, ahimè). Interessanti, la gestione del brano è divertente, il ritornello è azzeccato, il ritmo è coinvolgente, la melodia rimane appiccicata in testa. Ad intrattenimento ci siamo, mancherebbe giusto avere davvero qualcosa da dire. "Come dire, poca soddisfazione", tanta pucciosità per la stupenda generazione di eterni giovani d’oggi. 

Fedez – Battito (6/10) 

La cosa peggiore del brano di Fedez è il ritornello, dozzinale e capace di spezzare tutta la tensione creata nelle strofe. Sì, perché l’atmosfera cupa e vagamente horrorcore del brano, con quel profondo basso wobble che squaglia il flow, è parecchio convincente. Non mi sarei mai aspettato qualcosa di vagamente decente da parte di Fedez. 

Brunori Sas – L'albero delle noci (6/10) 

Brunori non ha bisogno di presentazioni. Lui rappresenta la quota di cantautorato DOP del Festival, quello che ci deve essere e che sempre ci sarà. Quindi De Gregori e compagnia bella. Che dire, pezzo posato, ricercato, scritto con eleganza e savoir faire. Però vorrei arrivare a quarant’anni senza sentirmene addosso cinquanta. 

Irama – Lentamente (3/10) 

Non saprei neanche cosa valutare, esattamente, per dare un parere su questa ballad strappalacrime a tutti i costi. Il testo da diario delle scuole medie? La melodia leggerissima da italo pop di serie b? Mi sembra tutto troppo vuoto. Sono spiazzato, ha vinto lui. 

Bresh – La tana del granchio (6/10) 

Si potrà dire che un brano pop è fatto di strofa, bridge, ritornello. Va bene, le variazioni non sono infinite. Però qui sembra davvero di assistere a un abuso dello schema aureo della tradizione melodica sanremese. Bresh parte molto bene con le sue armonie mediterranee tra chitarre e bouzouki, ma poi la solita dinamica patinata con ritornello sgolato e un po’ cafoncello da stadio ha la meglio. Il risultato è comunque discreto. 

Simone Cristicchi – Quando sarai piccola (4/10) 

No, dai. Per favore, no. Ok, bisogna scrivere canzoni drammatiche perché così si consegna “il tema” ai commenti dei giornaletti nostrani. E più l’argomento è peso più non si potrà fare a meno di lodare le buone intenzioni di chi canta. L’artista mette a nudo il suo dolore. E come si fa a dire che è uno stronzo, poi? Infatti non sarò certo io a prendermi questa responsabilità. Musicalmente il brano è un incrocio tra Samuele Bersani e Massimo Ranieri, super gonfio e madido di drammaticità disneyana. Brividi, ma non quelli giusti. 

Francesco Gabbani – Viva la vita (5,5/10) 

Soul-pop cantato alla Ramazzotti dove alla fine si butta tutto in caciara con uno svolgimento da positività tossica. Peccato, perché tra le righe ci sento anche inflessioni di buon cantautorato rock (lo dico? Non lo dico? Va bene: Benvegnù). Non un disastro, ma il brano perde sostanza man mano che si accumulano gli ascolti. 

Joan Thiele – Eco (7/10) 

Un po’ Levante un po’ Joan as Police Woman, lei sa il fatto suo e inaugura il brano con una bella distorsione di chitarra elettrica che male non fa. Un bel groove grassoccio e quella chitarra twang ferrosa spezzano piacevolmente il mood prevalente del Festival, accennando a un sound internazionale che profuma di Black Keys. Scritto bene, un brano piacevole che spazza via la sovrabbondanza di glassa sanremese. 

Toni Effe – Damme ‘na mano (3/10) 

Mi chico latino, damme ‘na mano a reggere questa cafonata. Califano piange e sbuffa dal suo piccolo nasino buffo. 

Rose Villain – Fuorilegge (4,5/10) 

Vale il discorso fatto con Clara, Elodie e che si potrebbe fare anche con Gaia: lo standard r’n’b sanremese ormai è un grande classico decadente. Elettronica discotecara che si fonde con la grande tradizione melodica italiana. Ok, abbiamo capito. Ora anche basta, grazie. 

Francesca Michielin – Fango in Paradiso (4,5/10) 

Me la ricordavo più creativa la Michielin. Ora fa la parte della brava ragazza devota alla musica leggera, alle delusioni amorose di bassa lega, al bel canto pulito senza arte né parte.
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