Il personaggio di Simonetta è tratto da I piccoli maestri di Luigi Meneghello. Un romanzo meraviglioso che inizia cosi: “Io entrai nella malga e la Simonetta mi venne dietro; dava sempre l’impressione di venir dietro, come una cucciola. Aveva i capelli un po’ arruffati, era senza rossetto, ma bella e fresca. La guerra era finita da qualche settimana.”
Ho immaginato di dedicare un po' di spazio a lei, a Simonetta, per vedere cosa sarebbe successo.
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Lui aveva tanto insistito per portarla lassù. Lei, come mossa da un’obbligata condiscendenza, visti i fatti vissuti, visto il tempo spartito, aveva accettato di accompagnarlo. Gli teneva dietro con quel senso di responsabilità sodale che non sentiva appartenerle fino in fondo. Lo conosceva appena. Mentre camminava arrancando tra i cespugli irti e i sassi sparsi si osservava dall’esterno, come in uno sceneggiato, come in un romanzo, e così si figurava le mosse giuste da fare, quelle più convenienti al plot, allo sviluppo del personaggio. Per questo l’aveva seguito, sembrava la cosa più opportuna. Anche se non ne aveva nessuna voglia.
Erano stati giorni trepidanti, con gli inglesi a Padova e i nazifascisti che se la davano a gambe come dei conigli, dopo aver contaminato quei luoghi con la loro sozza, bestiale stupidità. Avevano continuato ad ammazzare anche dopo la fine di tutto, i tedeschi, come cani rabbiosi incattiviti dalla catena sempre più corta. Si era sparato fino all’ultimo e, come se non bastasse, lui ora voleva recuperare proprio un fucile, il suo parabello. Le sembrava buffo quel nome così privo di fantasia, così ready to use. Parabello, ma bon! Non a caso erano stati i tedeschi ad aver dato quel nome alle loro pistole automatiche. A lei invece piacevano i nomi roboanti di certe automobili, così sofisticati ed esotici. Gli inglesi per Padova si erano portati appresso, assieme al rombo dei carrarmati, proprio quel linguaggio scintillante che tanto cozzava contro la rozza sbrigatività degli uomini delle sue parti, gutturali e come offesi dal dover proferire troppe parole. “Hey you, girl, would you like a real one?”, le aveva chiesto ammiccando un soldato. Si riferiva alle sigarette. Anche quelle sembravano sdrucite, quelle paglie improvvisate che di tanto in tanto fumava con i suoi compagni. Aveva detto di sì solo per poter rispondere “yes, thank you”.
Lui invece era un gran parlatore, a volte non la smetteva più di raccontare, di far sofismi. Poi, d’un tratto, si ammutoliva colto da un ricordo, da un pensiero, da un tonfo del cuore. Ogni tratto di terra brulla era legato a una fuga, a un accampamento di fortuna, a qualche insegnamento da trarre sulla vita, sulla nazione, sul futuro. Mentre lui parlava, lei pensava. Aveva passato l’ultimo anno a sostenere i partigiani tra i paesini del vicentino spostandosi di qua e di là con la sua bicicletta, a creare contatti, a consegnar missive. Gli uomini, poi, facevano il resto. Gli atti di valore. Simonetta ne aveva fatti molti di atti di valore, ma aveva l’impressione che in fondo non fossero tutto questo granché agli occhi dei combattenti. I combattenti, quelli veri, si limitavano a riconoscerne l’utilità, magari intenerendosi un pochino pensando alla mamma e alla sorella, e bon. Un fucile l'aveva imbracciato solo gli ultimi giorni, più per figura che per altro. Perciò le era presa la voglia di sparare dei colpi: così, per sapere cosa si prova.
Anche per quello era salita in montagna.
L’aveva convinta a dormire in tenda, perché il punto preciso non si trovava e ci sarebbero voluti giorni. E anche perché voleva starle vicino, il più possibile. Simonetta mal sopportava quella brama di intimità, nonostante l’idea l’avesse intrigata, all’inizio. Lo ricordava trionfante, certo meno marziale dei militari inglesi, vestiti di tutto punto, mentre i "bandits” portavano camicie logore, capelli lunghi e sfatti, pantaloni alla zuava fuori taglia. Eppure erano belli, fieri, tenaci. Le era quindi preso il desiderio di lasciare la città per non perdersi gli ultimi vapori della vita avventurosa che già sfumavano dai racconti e che leggeva sui volti induriti dei giovani armati che, nonostante la vittoria, ancora si atteggiavano con le pose della clandestinità.
Aveva lasciato il parabello in una fenditura del terreno dove si era rifugiato durante una rappresaglia. Sembrava impossibile trovare il posto, lo spazio era immenso e indistinto. Simonetta continuava a seguirlo perché ormai non poteva mica tornare indietro. Fino a che non si trovava l’arma ci sarebbero state altre notti passate vicini, mentre fuori scrosciavano i temporali e faceva freddo, e lui non aveva un buon odore, e lei si sentiva sporca, inelegante, stanca, inutile, annoiata. L’esaltazione da bambino mentre raccontava le sue cose di guerra, prendendosi un po’ in giro ma forse soltanto per amplificare l’effetto retorico delle sue parole, la intenerivano e indispettivano allo stesso tempo. L’istinto sarebbe stato di tenerlo a bada, dirgli di star buono, calmo, poggiargli una mano sulla testa e rassicurarlo. Rassicurarlo, sì, perché dopo una guerra ce ne sarebbe il bisogno. Lascia stare il fucile, le pallottole, gli atti di valore, stenditi e dormi, gioca, stai buono, calmo.
Era anche sua, quella vittoria? Lo pensava mentre lui si esaltava una notte di temporale, sparando all’impazzata contro i tuoni e il vento dopo il ritrovamento incredibile dell’arma. Credeva che Simonetta dormisse, ma lei lo sentiva benissimo. Pensava che cosa ne avrebbe tratto, lei, dalla Liberazione. Gli atti di valore sarebbero continuati a rimaner affar loro? Loro, che parlavano, trigavano, facevano, disfacevano, tiravan su gran discorsi, piani, progetti, litigavano e si sentivano fratelli, tutti quanti. E noi?, pensava Simonetta, noi portiam le missive, facciamo le ancelle e veniam dietro. E basta? That’s all?
Per questo voleva sparare. Sentiva che la sua vita non l’avrebbe vissuta stando alla cavezza. Voleva dirigere, godere delle cose belle, mandare avanti qualcosa di suo. Però, prima di tutto, bisognava imparare a sparare. Per quello lo aveva seguito. E così, una volta impugnata l’arma aveva esploso una ad una le ventuno palle. Ventuno, come la sua età. I primi colpi con le mani di lui strette attorno. Il botto, l’emozione, il tremore di immaginare lo stesso gesto nei momenti di lotta. Sparare a qualcuno. Come è possibile? Poi, man mano che le palle sparate erano diventate dieci, undici, dodici, quelle mani avevano lentamente alleggerito la presa. Non c’era niente di importante in quell’esercizio figurativo, per lui. Forse anche quella era solo un’altra scusa per tenersela appresso. Simonetta, però, gli ultimi colpi gli aveva sparati da sola, mirando bene, facendo attenzione, controllando il respiro.
L’ultimo colpo, ne era sicura, aveva centrato in pieno il bersaglio.